Chi l’ha detto che il pesce va pescato? Su due pesci nel piatto, uno è stato allevato. Del resto, se le piante si coltivano e gli animali da carne si tengono nella stalla, perché per il pesce dovremmo accontentarci di quanto offre la natura? In un recente articolo il settimanale britannico The Economist lanciava l’allarme: entro il 2010 la metà del pesce consumato arriverà dagli allevamenti intensivi, spesso inefficienti e inquinanti. Nel settore dell’itticoltura, proseguiva, vengono utilizzati pesticidi, antibiotici e ormoni per la crescita. A peggiorare le cose è il fatto che i Paesi con più lunga tradizione appartengono a quelle zone del mondo in rapido sviluppo, a partire dal Sudest asiatico, dove le regole non esistono o vengono facilmente trasgredite. Basti pensare che il 70 per cento del pesce allevato nel mondo è cinese. Ma c’è di più: in Indonesia, Thailandia e Vietnam enormi fasce costiere sono state disboscate per creare specchi d’acqua artificiali, dove l’allevamento produce una concentrazione di escrementi e di avanzi di mangime e le infezioni si propagano con facilità. L’altra faccia della medaglia è il mare, divenuto la pattumiera del pianeta. Sostanze tossiche, metalli pesanti, scarichi d’ogni tipo inquinano le stesse acque dove i pescherecci gettano le reti. Qualche mese fa destò scalpore la notizia che il sushi servito nei più esclusivi (e costosi) ristoranti di New York, rigorosamente freschissimo e pescato, si era rivelato ad alto contenuto di metalli tossici come il mercurio. Altro dato su cui riflettere: i nostri mari sono sempre più 'stressati'. Se continueranno a essere sfruttati con i ritmi selvaggi degli ultimi decenni, entro il 2050 potranno offrirci solo calamari, alghe e meduse. Del resto, secondo un recente Rapporto della Fao, l’attività di pesca o acquacoltura dà lavoro a 43 milioni e mezzo di persone nel mondo (l’86 per cento in Asia). Esistono Paesi in via di sviluppo, come il Bangladesh, la Cambogia e il Ghana, dove almeno la metà delle proteine animali è fornita dal pesce. In questo scenario globale, come si tutela il consumatore davanti ai suoi due pesci nel piatto? Al mercato il pesce 'di cattura' risulta più costoso di quello allevato, ma è anche più amico della salute e dell’ambiente? "Io sono un di-fensore del fresco pescato, preferibile sotto il profilo gastronomico e nutrizionale" chiarisce Gior-gio Calabrese, docente a Piacenza e noto nutri- zionista. 'Però dobbiamo essere realistici – precisa –. Se posso andare al porto o in pescheria, è un conto. Altrimenti ben venga il pesce allevato o, in seconda battuta, quello surgelato. L’Italia è il Paese europeo con più chilometri dio coste ma con il minor consumo ittico, appena 250 grammi a testa alla settimana. Vorrei che passasse il seguente messaggio: mangiamo più pesce. Poi, in un'ipotetica scala di valori, fatto 100 il fresco pescato, assegnerei un punteggio di 90 all'allevato in acqua di mare e 80 a quello in acqua dolce". L'apporto di proteine e, soprattutto, dei preziosi grassi Omega 3, spiega Calabrese, 'raggiunge il massimo nel microclima del mare, che risente delle variabili di salinità, plancton e maree'. E la sicurezza alimentare? 'Se le istituzioni funzionano, come io penso, gli alimenti che arrivano sulle nostre tavole sono sicuri, che siano pescati o allevati, freschi o surgelati. In Europa esistono regole e controlli. Diverso il caso, di cui tanto si è letto sui giornali, del pangasio: anch’io sono per bandirlo dalle mense, ma per una ragione semplice. Questo pesce allevato in Asia, nell’inquinatissimo delta del Mekong, ha un apporto nutrizionale bassissimo: un terzo della trota, a parità di peso. E ha un contenuto di sodio esagerato, che lo rende sconsigliabile a bambini e anziani. Oltretutto, e qui c’è frode, viene spesso venduto decongelato spacciandolo per fresco'. Dunque un rischio esiste. 'Il 45% degli allarmi rapidi a Bruxelles riguarda prodotti dell’Estremo Oriente. In Vietnam si pratica un’acquacoltura non sostenibile: dal punto di vista ambientale, perché inquina; sociale, perché sfrutta la manodopera; economico, perché con prezzi così bassi, attorno ai 2 euro al chilo, non si spiegano i costi dell’esportazione'. 'Se l’acquacoltura è fatta bene – sentenzia Calabrese – ci dà l’unico pesce controllato dalle uova al piatto'. Ma quali sono le garanzie di una corretta acquacoltura? E cosa assicura al consumatore che siano state applicate? 'Il dato che deve allarmarci è il seguente – replica Pier Antonio Salvador, presidente dell’Associazione Piscicoltori Italiani –: il 60% del pesce consumato in Europa è importato. I nostri standard di qualità e sicurezza sono tra i migliori al mondo, ma un eccesso di burocrazia può renderci difficile stare sul mercato. Mentre il pesce di cattura viene controllato a campione, quello allevato è sottoposto a un controllo di filiera che non ha mai evidenziato distorsioni marcate. I nostri prodotti sono freschi, perché abbiamo il vantaggio di pescare secondo le previsioni di consumo. Le specie allevate hanno un periodo di accrescimento breve, e dunque fissano meno metallo pesante. Ricordiamoci che il tonno, longevo, non andrebbe consumato più di una o due volte al mese'. Le regole per un corretto allevamento partono dall’habitat: acqua pulita in entrata e in uscita, mangimi corretti e dispersione minima, uso ridotto di farmaci. 'Un ambiente sano è essenziale per il buono sviluppo dell’allevamento. Quanto ai famigerati antibiotici, i limiti vigenti in Italia sono tra i più bassi e a dosarli è il mangimista. Di fatto, il ricorso al farmaco per noi è una sconfitta e un costo, se necessario preferiamo usare i vacci- ni'. L’ecologia insegna che i pesci sono 'sen- sori' di un allarme biologico. 'Di recente nel padule di Grosseto – racconta Salvador – proprio grazie a un impianto di acquacoltura sono riapparsi microrganismi assenti da tempo. E non è raro il caso di allevamenti che abbiano smascherato scarichi illeciti di sostanze dannose, in fiume o in mare'. Lager inquinanti o sentinelle ambientali? Di sicuro, tra gli allevamenti del Mekong e quelli nostrani c’è di mezzo il mare.