giovedì 25 giugno 2009
Metà del pesce consumato proviene dagli allevamenti, che ora sono sotto accusa specie nei paesi asiatici. Itticoltura e pesca in mare, due vie a confronto.
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Chi l’ha detto che il pesce va pescato? Su due pe­sci nel piatto, uno è stato allevato. Del resto, se le piante si coltivano e gli animali da carne si tengono nella stalla, perché per il pesce dovremmo accontentarci di quanto offre la natura? In un recen­te articolo il settimanale britannico The Economist lanciava l’allarme: entro il 2010 la metà del pesce con­sumato arriverà dagli allevamenti intensivi, spesso i­nefficienti e inquinanti. Nel settore dell’itticoltura, proseguiva, vengono utilizzati pesticidi, antibiotici e ormoni per la crescita. A peggiorare le cose è il fatto che i Paesi con più lunga tradizione appartengono a quelle zone del mondo in rapido sviluppo, a partire dal Sudest asiatico, dove le regole non esistono o ven­gono facilmente trasgredite. Basti pensare che il 70 per cento del pesce allevato nel mondo è cinese. Ma c’è di più: in Indonesia, Thailandia e Vietnam enormi fa­sce costiere sono state disboscate per creare specchi d’acqua artificiali, dove l’allevamento produce una concentrazione di escrementi e di avanzi di mangi­me e le infezioni si propagano con facilità. L’altra fac­cia della medaglia è il mare, divenuto la pattumiera del pianeta. Sostanze tossiche, me­talli pesanti, scarichi d’ogni tipo inquinano le stesse acque dove i pescherecci gettano le reti. Qual­che mese fa destò scalpore la no­tizia che il sushi servito nei più e­sclusivi (e costosi) ristoranti di New York, rigorosamente freschis­simo e pescato, si era rivelato ad alto contenuto di metalli tossici come il mercurio. Altro dato su cui riflettere: i nostri mari sono sem­pre più 'stressati'. Se continue­ranno a essere sfruttati con i ritmi selvaggi degli ultimi decenni, en­tro il 2050 potranno offrirci solo calamari, alghe e meduse. Del re­sto, secondo un recente Rapporto della Fao, l’attività di pesca o acquacoltura dà lavoro a 43 milioni e mezzo di persone nel mondo (l’86 per cento in Asia). Esistono Paesi in via di sviluppo, come il Bangladesh, la Cambogia e il Ghana, dove almeno la metà delle proteine animali è fornita dal pesce. In questo scenario globale, come si tutela il consu­matore davanti ai suoi due pesci nel piatto? Al mer­cato il pesce 'di cattura' risulta più costoso di quello allevato, ma è anche più amico della salute e del­l’ambiente? "Io sono un di-fensore del fresco pe­scato, preferibile sotto il profilo gastronomico e nutrizionale" chiarisce Gior-gio Calabrese, docen­te a Piacenza e noto nutri- zionista. 'Però dob­biamo essere realistici – precisa –. Se posso an­dare al porto o in pescheria, è un conto. Altri­menti ben venga il pesce allevato o, in secon­da battuta, quello surgelato. L’Italia è il Pae­se europeo con più chilometri dio coste ma con il minor consumo ittico, appena 250 grammi a testa alla settimana. Vorrei che passasse il seguente messaggio: mangiamo più pesce. Poi, in un'ipotetica scala di valori, fatto 100 il fresco pescato, assegnerei un punteggio di 90 all'allevato in acqua di mare e 80 a quello in acqua dolce". L'apporto di proteine e, soprattutto, dei preziosi grassi Omega 3, spiega Calabrese, 'raggiunge il massimo nel micro­clima del mare, che risente delle variabili di salinità, plancton e maree'. E la sicurezza alimentare? 'Se le istituzioni funzionano, come io penso, gli alimenti che arrivano sulle nostre tavole sono sicuri, che sia­no pescati o allevati, freschi o surgelati. In Europa e­sistono regole e controlli. Diverso il caso, di cui tanto si è letto sui giornali, del pangasio: anch’io sono per bandirlo dalle mense, ma per una ragione semplice. Questo pesce allevato in Asia, nell’inquinatissimo del­ta del Mekong, ha un apporto nutrizionale bassissi­mo: un terzo della trota, a parità di peso. E ha un con­tenuto di sodio esagerato, che lo rende sconsigliabi­le a bambini e anziani. Oltretutto, e qui c’è frode, vie­ne spesso venduto decongelato spacciandolo per fre­sco'. Dunque un rischio esiste. 'Il 45% degli allarmi rapidi a Bruxelles riguarda prodotti dell’Estremo O­riente. In Vietnam si pratica un’acquacoltura non so­stenibile: dal punto di vista ambientale, perché in­quina; sociale, perché sfrutta la manodopera; econo­mico, perché con prezzi così bassi, attorno ai 2 euro al chilo, non si spiegano i costi dell’esportazione'. 'Se l’acquacoltura è fatta bene – sentenzia Calabrese – ci dà l’unico pesce controllato dalle uova al piatto'. Ma quali sono le garanzie di una corretta acqua­coltura? E cosa assicura al consu­matore che siano state applicate? 'Il dato che deve allarmarci è il se­guente – replica Pier Antonio Sal­vador, presidente dell’Associazio­ne Piscicoltori Italiani –: il 60% del pesce consumato in Europa è im­portato. I nostri standard di qua­lità e sicurezza sono tra i migliori al mondo, ma un eccesso di bu­rocrazia può renderci difficile sta­re sul mercato. Mentre il pesce di cattura viene controllato a cam­pione, quello allevato è sottoposto a un controllo di filiera che non ha mai evidenziato distorsioni marcate. I nostri pro­dotti sono freschi, perché abbiamo il vantaggio di pe­scare secondo le previsioni di consumo. Le specie al­levate hanno un periodo di accrescimento breve, e dunque fissano meno metallo pesante. Ricordiamo­ci che il tonno, longevo, non andrebbe consumato più di una o due volte al mese'. Le regole per un cor­retto allevamento partono dall’habitat: acqua pulita in entrata e in uscita, mangimi corretti e dispersione minima, uso ridotto di farmaci. 'Un ambiente sano è essenziale per il buono sviluppo dell’allevamento. Quanto ai famigerati antibiotici, i limiti vigenti in I­talia sono tra i più bassi e a dosarli è il mangimista. Di fatto, il ricorso al farmaco per noi è una scon­fitta e un costo, se necessario preferiamo usa­re i vacci- ni'. L’ecologia insegna che i pesci so­no 'sen- sori' di un allarme biologico. 'Di re­cente nel padule di Grosseto – rac­conta Salvador – proprio grazie a un impianto di acquacoltura sono riap­parsi microrganismi assenti da tem­po. E non è raro il caso di alleva­menti che abbiano smascherato scarichi illeciti di sostanze dan­nose, in fiume o in mare'. Lager inquinanti o sentinelle am­bientali? Di sicuro, tra gli alle­vamenti del Mekong e quelli nostrani c’è di mezzo il mare.
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