sabato 19 ottobre 2024
Il premier monta l'accusa: "Mi volevano uccidere". E motiva una risposta più pesante di quanto promesso agli Usa. Il grido dei familiari degli ostaggi: "Che facciamo ancora a Gaza?"
La protesta dei familiari degli ostaggi a Tel Aviv

La protesta dei familiari degli ostaggi a Tel Aviv - Ansa

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Un anno dopo – domani saranno 365 giorni esatti dall’inizio del sit-in permanente – “Hostages square”, la piazza degli ostaggi, è ancora là, di fronte all’edificio squadrato del museo d’arte di Tel Aviv. Se per l’intera Israele il tempo si è fermato al 7 ottobre 2023, questo è il luogo dove è rimasto letteralmente immobile. Certo, settimana dopo settimana, il paesaggio dell’ormai ex Sderot Shaul HaMelech 25 si è popolato dei simboli del dolore collettivo. Il tunnel di compensato decorato con i volti dei rapiti, i banchetti dove si vendono i braccialetti gialli per sostenere il Forum della famiglie, il piano a cui chi vuole si ferma a suonare una canzone in omaggio a quanti sono ancora nella Striscia, l’enorme capanna di frasche allestita per Sukkot: fino a mercoledì, quando si concluderà la festa ebraica, nella grande tavolata imbandita al di sotto, i parenti dialogheranno a turno con chi vorrà ascoltarli. Ma ogni aggiunta, in fondo, non è che il ripetersi dell’uguale. Come i secondi che sembrano scorrere sul grande orologio digitale ma, in realtà, sono solo i battiti di un cuore in agonia. Quello dei familiari dei 251 rapiti da Hamas. E del resto della società, al loro fianco. Lo hanno dimostrato anche ieri unendosi all’ormai drammaticamente consueta protesta del sabato, al grido: “Bring back home”, riportateli a casa. Dopo due settimane di stop per ragioni di sicurezza, il “ritorno” - pur con il limite di 2.500 partecipanti - era già previsto. La morte di Yahya Sinwar, però, l’ha reso catartico. «Se non approfittiamo dell’opportunità per far liberare i rapiti con un accordo immediato, la fine del capo di Hamas non sarà servita a niente. Che cosa dobbiamo fare ancora a Gaza?», dice con tono sgomento ma deciso Yoli Levy, padre della 19enne Naama, la cui immagine mentre viene caricata a forza su un veicolo a Nahal Oz, legata e sanguinante, è diventata emblema della brutalità del 7 ottobre. Da un anno e tredici giorni, la giovane è nella Striscia insieme ad altri cento sequestrati, di cui 36 sono ritenuti morti. «È la nostra finestra di opportunità. Non possiamo sprecarla. Ogni Paese del mondo ci aiuti», gli fa eco Daniel Lifschitz, nipote di Oded, catturato a Nir Oz. Israele ha in mano una carta aggiuntiva, il corpo di Sinwar, che potrebbe essere scambiato con gli ostaggi.

Per il governo di Benjamin Netanyahu, però, la priorità sembra essere Teheran. Uno dei 180 droni scagliati ieri da Hezbollah – uno Ziyad 107, i cosiddetti ordigni invisibili, in grado di sfuggire allo scudo aereo – ha colpito la casa del premier a Cesarea. Né quest’ultimo né la moglie si trovavano là e il raid non ha causato feriti. Subito, però, Netanyahu ha puntato il dito contro gli ayatollah: «Gli alleati dell’Iran volevano assassinarmi. Ma hanno commesso un grosso errore. L’asse del male pagherà un prezzo altissimo». Il riferimento all’Iran - ribadito pure dal ministro degli Esteri, Israel Katz - sembra preannunciare l’avvicinarsi della risposta (ora ha un altro pretesto) all’attacco del primo ottobre, pronosticato prima delle presidenziali Usa. Secondo i media israeliani vicini al governo, il "tentato omicidio" darebbe alla ritorsione israeliana - che ci sarà, ribadiscono fonti interne all'esecutivo - maggiore legittimità. La stampa critica, invece, sottolinea come ancora una volta, il premier cerchi di cavalcare le circostanze per continuare a rinviare una soluzione del dossier Gaza, proprio ora che l'uscita di scena di Sinwar aveva intensificato al massimo grado le pressioni internazionali, Usa in testa. Il segretario di Stato, Antony Blinken, tornerà ancora una volta in Israele martedì per provare a rilanciare il negoziato. Di sicuro, però, nel faccia a faccia con Netanyahu discuterà anche delle possibili azioni contro Teheran, sempre che allora non siano già avvenute. La paura è che il premier, dopo il "drone di Cesarea", si senta autorizzato a scavalcare le linee rosse fissate da Washington.

Nei due fronti, nel frattempo, la guerra continua, implacabile. Gaza nord è allo stremo: un bombardamento all’ospedale indonesiano di Jabalia ha causato 33 morti, di cui 21 donne e bimbi. Anche a Beit Lahoun e Beit Lahya, i medici hanno denunciato attacchi con vittime vicino agli ospedali. Le autorità locali parlano di oltre 400 uccisi di due settimane di combattimenti, che hanno isolato le tre città settentrionali dal resto della Striscia. I raid sono andati avanti anche in Libano: per la prima volta dopo mercoledì è stato colpito il sud di Beirut. Le vittime da metà settembre sono ormai 1.800.

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