La moschea dov'è avvenuto l'attentato - Reuters
L’esplosione che ieri in una moschea della città pachistana di Peshawar ha provocato almeno 93 morti e circa 150 feriti sarebbe stata una ritorsione per la morte per lo scoppio di una mina, lo scorso agosto in Afghanistan, di Umar Khalid Khorasani, uno dei comandanti dei Taleban pachistani. Per quella morte il movimento aveva accusato i servizi segreti pachistani e ieri, con un comunicato diffuso poche ore dopo l’evento, Sarbakaf Mohmand, leader del Tehreek-i-Taleban Pakistan e fratello del comandante ucciso, ha rivendicato l’attacco con cui un attentatore suicida di 25 anni avrebbe fatto esplodere sette chilogrammi di esplosivo nella moschea che si trova a ridosso dell’area residenziale della polizia di Police Lines a Peshawar, capoluogo della provincia di Khyber Pukhtunkhwa.
Una circostanza, questa, che rende ancora più inspiegabile come l’attentatore sia riuscito a entrare nella moschea affollata di fedeli per la preghiera del mezzogiorno superando i controlli all’esterno e all’ingresso dell’edificio che è parzialmente crollato per la violenza dello scoppio. A stento l’ospedale Lady Reading, dove sono stati inviati i cadaveri e i feriti, è riuscito a reggere l’afflusso delle vittime. Immediata la condanna del presidente della repubblica, Arif Alvi, e del primo ministro, Shehbaz Sharif, che ha visitato le vittime e parlato di «tragedia umana inimmaginabile». Sharif in un messaggio ha condannato l’attentato dinamitardo e ordinato alle autorità di fornire il migliore trattamento possibile alle vittime. Sharif, in carica da maggio 2022 dopo un colpo di mano parlamentare che ha messo fine al governo guidato dal suo avversario Imran Khan, ha promesso «un’azione decisa» contro i responsabili. Il suo predecessore, ancora a capo del partito Tehreek-i-Insaf Pakistan vincitore dalle elezioni del 2018, ha condannato a sua volta via Twitter quello che ha definito «un attacco terroristico suicida» e ha ribadito come «sia imperativo migliorare la raccolta di informazioni ed equipaggiare correttamente le forze di polizia per combattere il pericolo crescente del terrorismo».
Un messaggio di cordoglio è stato postato su Twitter anche da Malala Yusufzai, la giovane Premio Nobel per la pace pachistana, che si è detta «sconvolta e affranta per la perdita di così tante vite e per i tanti feriti nell’attacco». «Chiedo al governo e alle forze di sicurezza di combattere il terrorismo in ogni sua forma e proteggere ogni cittadino», ha concluso. Quello toccato da Malala, a sua volta vittima di un aggressione armata dei taleban che nel settembre 2012 quasi le costò la vita, è un tasto assai sensibile nel Paese. Troppe volte, infatti, nella dura battaglia per sconfiggere la militanza armata e terrorista, emergono vuoti inspiegabili nella sicurezza come pure reticenze o connivenze nel gioco dei rapporti tra politica, forze armate e servizi segreti che aprono falle nel sistema di protezione ed espongono a eventi letali individui, gruppi o istituzioni che sono impegnati a contrastare l’estremismo religioso e la violenza integralista, come pure le minoranze religiose. L’esplosione di ieri ha ancora una volta insanguinato Peshawar, due milioni di abitanti, roccaforte dell’etnia Pashtun tra cui è maggiormente radicata l’ideologia taleban, come nel vicino Afghanistan. Si tratta dell’evento terroristico più sanguinoso compiuto in questa città. Lo scorso marzo una moschea sciita era stata devastata durante la preghiera del venerdì con la morte di 58 persone e il ferimento di quasi 200.
Si calcola che dal 2001 ad oggi le numerose azioni terroristiche, in buona parte dovute ai vari raggruppamenti taleban, abbiano provocato in Pakistan almeno 29mila morti tra civili e militari.