giovedì 20 febbraio 2025
Famiglie raccolte nella Piazza degli Ostaggi piangono il rientro delle salme dei due bambini e della madre. «Come facciamo a ritrovare fiducia?»
Soldati israeliani salutano l'arrivo delle bare di 4 ostaggi, tra cui i fratellini Bibas e la loro mamma

Soldati israeliani salutano l'arrivo delle bare di 4 ostaggi, tra cui i fratellini Bibas e la loro mamma - Reuters

COMMENTA E CONDIVIDI

Piazza degli Ostaggi, Tel Aviv. Da mesi, per tutta Israele questo è il posto del dolore, della protesta, della speranza. Il posto dove andare, anche da soli, quando proprio non ce la si fa più, per stare accanto alle famiglie degli ostaggi, per condividere la disperazione dell’attesa, la gioia dei ritorni. Ieri Piazza degli Ostaggi era un’altra piazza. Silenziosa come mai prima, incredula come mai prima, di fronte all’evidenza di un orrore quasi impossibile da sopportare. Chi non è riuscito ad andare il ufficio non ha avuto bisogno di giustificazione. Per 503 giorni Israele ha sperato che questo giorno non dovesse mai arrivare.

Per 503 giorni tutti, qui, hanno voluto credere che Hamas si stava tenendo questi due bambini, Kfir e Ariel, strappati ai loro genitori e alla loro vita in quel Sabato nero, portati in un tunnel o chissà dove nell’inferno di Gaza, come una carta da giocare al momento giusto sul tavolo del negoziato. Che è poi un ricatto: perché in questo modo viene vissuto dagli israeliani l’incommensurabile prezzo da pagare: migliaia di palestinesi, colpevoli di terrorismo, omicidio e dei peggiori reati, rilasciati dalle carceri israeliane in cambio di chi è stato preso in casa sua mentre stava facendo colazione in un giorno di festa.

Ma il ritorno nelle bare di Shiri Bibas e dei suoi bambini, e di Oded Lifshitz, giornalista che ha dedicato tutta la sua vita alla promozione del dialogo con i palestinesi, uno che i bambini dall”altra parte” li andava a prendere per accompagnarli negli ospedali israeliani, per garantire loro le cure necessarie, è un prezzo troppo caro da pagare.

«Come faccio a dirlo a mio figlio di 8 anni? Come faccio a ritrovare la fiducia», si chiede una delle mamme, qui, in Piazza degli Ostaggi. «Come farà Yarden Bibas?», chiede poi con il pensiero rivolto al marito di Shiri e al padre di quei due bambini. Un uomo rimasto 16 mesi nella Striscia e rilasciato dieci giorni fa dopo mesi di torture psicologiche; filmato mentre un altro ostaggio veniva costretto a dirgli che la sua famiglia non c’era più.

«Shiri non era solo la madre di Ariel e Kfir. Era tutte noi. Rappresentava la nostra forza. Hamas, uccidendo lei, ha ucciso la nostra speranza. Cosa dico a mio figlio che chiede se potrà capitare anche a lui?».

Ci sono anche tanti papà raccolti in questo giorno di dolore: «È da quattro generazioni, da quando mio nonno è sopravvissuto alla Shoah, che diciamo ai nostri figli che loro non saranno costretti, come noi, a dover arruolarsi nell’esercito – dice uno di loro, mentre sul maxi schermo i soldati in divisa trasportano le bare coperte dalla bandiera bianca e blu –. Quello che Hamas ha compiuto il 7 ottobre non è stato solo il più grande massacro della storia di Israele. Hanno fatto di peggio: hanno distrutto per sempre il sogno di chi, come Oded Lifshitz, ha dedicato tutta la sua vita alla pace. Hamas ha scelto di uccidere proprio loro. Il lutto di oggi non è solo per la perdita dei nostri quattro concittadini, ma per la distruzione del processo di pace a cui credeva un intera nazione».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: