mercoledì 30 gennaio 2013
​Finita  dittatura, varate le prime riforme, ecco i problemi: un'economia che stenta a decollare e antichi conflitti etnici. Due anni dopo la fine del regime militare,il miglioramento delle condizioni di vita auspicato dalla popolazione ancora non c'è stato. Persino Aung San Suu Kyi viene contestata.(Piergiorgio Pescali) 
«Guai ad allentare il controllo sui generali»
Il cammino della libertà
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​Sono trascorsi poco più di due anni da quel 14 novembre 2010 in cui Aung San Suu Kyi si è affacciata alla cancellata della sua villa al 52 di University Avenue a Yangon, salutata da una folla osannante. Il Myanmar non è più lo stato dittatoriale che era allora, retto da militari corrotti e incompetenti, ma neppure Aung San Suu Kyi è rimasta l’intoccabile icona della democrazia e la paladina dei diritti umani. Del resto non poteva essere altrimenti: dopo aver contribuito, con la sua caparbietà e onestà intellettuale, al cambiamento democratico del paese, ora si trova lei stessa ad affrontare i problemi reali del paese e costretta ad agire. Il suo coinvolgimento nella politica, specialmente dopo l’elezione nel parlamento lo scorso aprile, la obbliga a fare delle scelte e non più, come era stato fino ad oggi, a dare sentenze restando estranea al sistema.Al tempo stesso, se in Occidente le riforme attuate dal governo di Thein Sein vengono accolte con entusiasmo, tanto da essere applaudite dallo stesso Obama e da indurre Stati Uniti e Comunità europea a sospendere le sanzioni, nella regione asiatica sono viste con più apprensione. Le leggi approvate a raffica dal parlamento, pur condivisibili sul piano democratico e dei diritti umani, stanno causando una pericolosa destabilizzazione sociale, mentre l’economia, ingabbiata per troppo tempo nei gangli burocratici e nei monopoli militari, stenta a decollare. La popolazione birmana si aspetta un rapido miglioramento delle condizioni di vita, ma non tutti riusciranno a beneficiare dello sviluppo in atto nel paese. Questo sta creando una massa di scontenti che viene facilmente infiltrata da elementi ostili al processo di riforma o, dalla parte opposta, da radicali democratici delusi dalla diminuita combattività della Lega nazionale per la democrazia (Lnd) e della stessa Aung San Suu Kyi.Le manifestazioni nella miniera di Monywa ne sono un esempio. Iniziate nella seconda metà del 2012 per protestare contro lo spostamento coatto di 26 villaggi in previsione di un allargamento del giacimento, le dimostrazioni sono degenerate in scontri con la polizia. Le violenze gratuite ai danni dei manifestanti hanno convinto Thein Sein a formare una commissione d’inchiesta, ponendo alla sua guida Aung San Suu Kyi. Una chiara conferma della stima che il presidente nutre nei suoi confronti, ma anche una dimostrazione della collaborazione che esiste, all’interno del parlamento birmano, tra le diverse forze politiche. Suu Kyi si è immediatamente recata a Monywa, dove è stata accolta trionfalmente dalla popolazione. A molti, però, il suo discorso non è piaciuto: «Dopo averci detto che capiva le nostre rimostranze, ci ha praticamente chiesto di abbandonare le nostre case per permettere alla nazione di onorare gli impegni già presi e mantenere alto l’onore della Birmania» afferma Han Win Aung, uno dei contadini che dovrà essere sfrattato e coordinatore del comitato locale di protesta.Ciò che i contadini di Monywa contestano maggiormente è la differenza di comportamento espresso dalle autorità in un simile caso a Myitsone, nello stato Kachin. Allora, a seguito delle manifestazioni dei locali nel settembre 2011, Thein Sein aveva annullato i lavori, evitando il trasferimento di migliaia di abitanti, ma provocando il disappunto della Cina, che nel progetto aveva investito 3,6 miliardi di dollari. A Monywa, invece, si è preferito evitare un nuovo scontro con Pechino, principale partner economico del Myanmar.Ma non è solo per l’onore della patria che la miniera di rame di Monywa continuerà ad ingrandirsi: Myitsone, infatti, è in territorio Kachin, il principale gruppo etnico in conflitto con il Tatmadaw. L’annullamento del contratto faceva parte del piano di pace inserito nei negoziati in atto tra la Kachin Independence Organization e Nay Pyi Taw.Il problema dei conflitti etnici è uno dei punti più delicati dell’agenda governativa. Dopo aver concluso accordi di pace con 11 gruppi armati, il governo birmano si è ritrovato improvvisamente a dover gestire un nuovo fronte: quello apertosi nello stato di Rakhine, al confine con il Bangladesh. Qui, accanto a tre milioni di rakhine buddisti, vivono circa 800mila rohingya musulmani, la quasi totalità priva di cittadinanza birmana nonostante abbia le carte in regola per ottenerla. Sin dal 1948 il governo centrale ha discriminato la minoranza islamica, negandole anche il nome (ufficialmente vengono chiamati bengalesi, anche se non sono tali). I rapporti tra la comunità buddista e quella islamica sono sempre stati tesi, ma la democratizzazione e l’allentamento del controllo autoritario, ha permesso ai rohingya di avanzare richieste di trattamento equanime, allarmando i rakhine. Con queste premesse, anche i minimi contrasti possono diventare fratture insanabili. Il pericolo aggiunto, rispetto agli altri conflitti già esistenti in Myanmar, è che questo, oltre a essere uno scontro etnico, è anche religioso, su cui esponenti islamici radicali al di fuori del Myanmar si sono già pronunciati lanciando il jihad e minacciando di colpire le comunità buddiste birmane.Ad alimentare lo scoramento dei rohingya c’è l’assoluto silenzio della stessa Aung San Suu Kyi sulle violazioni subite dalla minoranza musulmana. Un silenzio motivato, dalla stessa leader democratica, dal fatto che i rohingya (o bengalesi, come li ha definiti) non hanno alcuna rappresentanza in parlamento. Un passo indietro verso la strada della democrazia, ma questa volta a retrocedere è stata proprio Aung San Suu Kyi.
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