Si aggrava la crisi in Myanmar. E mentre polizia e militari incrementano la repressione per cercare di fermare l’ondata di scioperi e proteste, per la prima volta nei disordini viene coinvolta direttamente la Chiesa cattolica. Dei tre morti di ieri, infatti, due sono stati colpiti da proiettili durante una manifestazione nei pressi della cattedrale di San Colombano a Miytkyina, capoluogo amministrativo dello Stato Kachin abitato da una etnia per oltre un terzo cristiana che da decenni si oppone a controllo dei militari e alla perdita di identità e autonomia.
Testimoni hanno parlato di colpi provenienti dagli edifici circostanti e di «uccisioni inumane di civili inermi». Diversi dei partecipanti alla protesta hanno cercato rifugio all’interno del recinto della Cattedrale, mentre il vescovo e alcune religiose, tra cui – come segnalato dall’agenzia Fides – suor Ann Rosa Nu Tawng, tra i simboli di queste settimane di violenza per avere il 28 febbraio chiesto inginocchiata davanti ai militari di non sparare sulla folla, hanno cercato di mediare per evitare un ulteriore spargimento di sangue. Secondo una fonte ecclesiale, sarebbero un centinaio gli arrestati nelle operazioni di rastrellamento nella stessa area, condotte sia dalla polizia sia dai militari, con 13 minorenni rilasciati in serata. Un evento verificatosi in una giornata in cui il Myanmar è stato semi-paralizzato dagli scioperi e dal boicottaggio dichiarati da numerosi sindacati e dai gruppi democratici per premere sulla giunta militare al potere dal primo febbraio.
L’episodio di Myitkiyna segnala una situazione di tensione che coinvolge molte delle minoranze ma che – svolgendosi in aree periferiche del Paese – fatica ad essere conosciuta all’esterno. Segnala però come la crisi non coinvolga soltanto la capitale politica Naiypidaw, quella commerciale Yangon e la seconda città, Mandalay– entrambe capisaldi della Lega nazionale per la democrazia della premio Nobel Aung San Suu Kyi – ma sempre più l’intero Paese.
A Yangon, a riacutizzare l’ostilità della popolazione verso i militari sono stati anche i raid di domenica notte, con numerosi arresti tra esponenti e sostenitori della Lega. Qui come altrove, a contribuire alla frustrazione e alla rabbia è stata anche la riesumazione, il 5 marzo, della salma della 19enne “Angel” vittima della repressione due giorni prima. Una mossa vista come il tentativo di negare che la morte sia dovuta a un proiettile sparato dalle forze di sicurezza che ha sfregiato una figura-simbolo del coraggio delle donne birmane. Anche per ricordarla, durante le proteste di ieri, sono stati sventolati o esposti gli htamein, i teli utilizzati per l’abbigliamento femminile, oggi tra i simboli dell’opposizione al regime militare come un tempo lo furono contro i britannici.
In parallelo alla tensione, crescono anche i timori per la sorte di centinaia di personalità politiche e attivisti detenuti in molti casi da febbraio senza alcuna notizia. Per intimidire una opposizione democratica già privata dei massimi leader tra cui Aung San Suu Kyi, sono anche iniziate esecuzioni selettive. Dopo l’uccisione la scorsa settimana di un coordinatore locale della Lega nazionale per la democrazia, domenica un suo esponente a Yangon, Khin Maung Latt, è morto sotto custodia per – si sospetta – le torture ricevute. Una situazione caotica che rischia di esplodere e che non risparmia nemmeno gli ospedali. È l’Alto Commissariato Onu per i Diritti umani a segnalare «rapporti credibili di ospedali occupati, inclusi almeno quattro a Yangon e almeno un altro a Mandalay» e che «le forze di sicurezza hanno ripetutamente preso di mira gli operatori sanitari che si sono posti alla testa del Movimento di disobbedienza civile».