Seppure nascosto in un guanto di velluto, il pugno di ferro del presidente Mohammed Morsi preoccupa – e non poco – l’opposizione egiziana. Determinata a ignorare le offerte di «dialogo» del leader, fin quando la mediazione proposta smetterà di essere «una facciata» e diventerà «un negoziato sui contenuti». E, anzi, pronta a convocare una nuova manifestazione «pacifica, in tutte le piazze del Paese» per venerdì a dispetto – o meglio in aperta sfida – dello stato di emergenza dichiarato ieri dal governo. La misura era stata anticipata dallo stesso Morsi in un lungo e ambiguo discorso diffuso dalla tv nella tarda serata di domenica. In cui, da una parte, anticipava una serie di leggi speciali per le città “ribelli” di Port Said, Ismailia e Suez, dove da giovedì ci sono stati scontri di piazza e oltre 50 vittime. Dall’altra, il presidente invitava unidici partiti avversari a un tavolo di dialogo che si sarebbe dovuto aprire ieri. «Non c’è alternativa al dialogo», aveva detto il capo di Stato. Affermazione non smentita dalle opposizioni. Che, però, hanno precisato ieri: «Il messaggio al popolo egiziano è che non respingiamo il dialogo ma non partecipiamo ad un dialogo privo di sostanza». Come ha ribadito Mohamed el-Baradei, uno dei più noti esponenti del Fronte di salvezza nazionale, lo schieramento laico: «Non partecipiamo ad un dialogo formale. Nei prossimi giorni presenteremo le nostre richieste, se Morsi le accetterà parteciperemo al tavolo». Alcune petizioni sono state preannunciate dall’altro leader del Fronte, Hamdeen Sabahi. Oltre a una pubblica assunzione di responsabilità per «il sangue versato», l’opposizione reclama la formazione di un governo di unità nazionale e di un comitato per modificare la Costituzione. Punti su cui la controparte sembra poco propensa a mediare. Alle parole “concilianti” di Morsi, infatti, ha fatto seguito ieri l’immediata proclamazione dello stato di emergenza e del coprifuoco nelle tre città calde. «È il mio dovere» fermare «lo spargimento di sangue», aveva dichiarato il leader. Le due leggi – presentate rispettivamente da Morsi e dal governo e ratificate a tempo di record dal Senato, come prevede la nuova carta – danno al presidente anche il potere di schierare l’esercito per garantire la sicurezza insieme alla polizia. Fino alle prossime legislative, i militari avranno pure la facoltà di arrestare i civili. Da venerdì sono state già fermati 83 dimostranti, accusati di aver partecipato agli scontri. Tra loro ci sono anche alcuni minori. L’inasprimento della legislazione non ha, per il momento, messo fine alle proteste. Che sono continuate anche ieri. Ancora una volta, i manifestanti sono tornati a Tahrir. Il dispiegamento delle forze di sicurezza ha prodotto tafferugli. Negli scontri è rimasto ucciso un passante. E la situazione si fa sempre più tesa, tanto che pure la Casa Bianca ha condannato gli scontri. La zona più turbolenta è tuttavia quella di Port Said. Qui – al malcontento contro i Fratelli musulmani al potere e l’islamista Morsi – si è aggiunta la rabbia per le 21 condanne a morte ai responsabili della strage avvenuta nel febbraio scorso allo stadio. Quella volta uno scontro fra opposte tifoserie si trasformò in un regolamento di conti tra uomini del vecchio regime di Mubarak ed esponenti della rivolta di Tahrir. Naturale, dunque, che la sentenza abbia riacceso gli scontri. Cominciati, al Cairo, in occasione del secondo anniversario della Primavera che Morsi è accusato di aver «tradito». Ora, la proclamazione delle leggi speciali rischia di gettare nuova benzina sul fuoco. Lo stato di emergenza è stato uno degli strumenti di repressione più utilizzati dal vecchio Faraone. L’opposizione, però, non è disposta a cedere senza combattere. «Venerdì torneremo in tutte le Tahrir d’Egitto per riaffermare la sacralità del sangue dei martiri e realizzeremo gli obiettivi della rivoluzione», ha detto el-Baradei.