mercoledì 11 gennaio 2012
​Quindici tentativi di immolazione dal marzo del 2010 da parte di religiosi. Atti che contraddicono la nonviolenza radicata nella fede buddhista, ma sono motivati dalla disperazione di fronte alla tragedia del popolo oppresso. Sempre più numerosi arresti arbitrari, incarcerazioni ed esecuzioni senza giusto processo.
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«Quanti tibetani dovranno anco­ra sacrificarsi prima che il mondo si svegli?». La doman­da di Thubten Samdup, rappresentante del Dalai Lama per l’Europa settentrionale e già membro del Parlamento tibetano in esilio, ha il senso di un appello. Accorato e urgen­te, per evitare altre vittime, ma anche per ar­rivare a una soluzione definitiva ed equa del­la situazione del suo Paese. Quindici tentativi di immolazione da mar­zo 2010 da parte di religiosi tibetani in diversi monasteri e località in Tibet hanno portato a un diverso livello di attenzione per la pro­testa degli abitanti contro l’occupazione ci­nese. Una tendenza preoccupante quella dei suicidi pubblici che emerge – tra le pieghe della repressione e di una realtà sovente i­gnorata – attraverso i canali dell’esilio e dei gruppi di sostegno alla cau­sa del Tibet indipendente. Ultimi drammatici esempi di una resistenza disperata e definitiva quelli di un mo­naco e di un laico che si so­no dati fuoco contempora­neamente venerdì scorso nella prefettura di Ngaba, provincia del Sichuan, con la morte di uno e il ricovero in gravi condizioni dell’al­tro, e di Nyage Sonam­drugyu, religioso del mona­stero di Nyanmo, nel Qin­ghai, ai confini con la regione autonoma del Tibet, uccisosi domenica. Un personaggio, quest’ultimo, particolarmente conosciuto: gestiva un orfanotrofio ed era ritenuto un rinpoche, un 'buddha vivente'. Un sant’uo­mo che prima di immolarsi ha distribuito volantini per far sapere che l’atto estremo non era «per la sua gloria personale ma per il Tibet e per la felicità dei tibetani». Atti, anche questi, che hanno suscitato pro­teste dei tibetani nelle località dove si sono verificati e una reazione delle autorità che parlano di «gesti di fanatismo», di «elemen­ti sovversivi» quando non di «delinquenti comuni». Atti che sono doppiamente 'defi­nitivi': nel senso della protesta e nel senso di contraddire la nonviolenza radicata nel­la fede buddhista e da oltre cinquant’anni predicata instancabilmente nel mondo dal Dalai Lama. Tuttavia, come sottolinea Samdup, «quello a cui assistiamo è un chiaro segnale di di­sperazione. I tibetani sono arrivati a un pun­to di rottura e il sacrificio della vita è la loro ultima risorsa. Cos’altro potrebbero fare sen­za danneggiare altri?». «Non solo i monaci, ma tutti i tibetani non hanno diritti sotto i cinesi, che semplicemente non si fidano di loro e non li rispettano, trattandoli come cit­tadini di seconda classe o come barbari», ri­corda ancora l’esponente tibetano in esilio. «Per quanto noi possiamo vedere – precisa Samdup –, i casi di protesta estrema non so­no isolati, ma riguardano diverse località del Tibet storico. Non dimentichiamo, infatti, che il Paese di cui rivendichiamo l’indipen­denza era assai più esteso dell’attuale Re­gione autonoma tibetana ( Tar), includendo anche aree ora integrate nelle province di Sichuan, Yunnan, Gansu e Qinghai. Ad e­sempio – prosegue Thubten Sandup – la mia famiglia è originaria del Sichuan, Sua San­tità il Dalai Lama del Qinghai...». La politica del governo cinese nella Regione autonoma e al di fuori di essa poco conce­de alla sensibilità degli abitanti, alla loro cul­tura, religione, lingua e identità; raramente tiene conto del loro parere su questioni che li riguardano strettamente. A parere dei ti­betani della diaspora, del governo in esilio in India e della rete di solidarietà interna­zionale alla causa, dal limitato tentativo in­surrezionale del 2008 la repressione cinese è stata senza precedenti. Sono aumentati arresti arbitrari, incarcerazioni, esecuzioni senza giusto processo e scomparse. Si è re­gistrata una maggiore sorveglianza dei mo­nasteri e una presenza costante della poli­zia al loro interno; tutti elementi che con­traddicono le pretese di normalizzazione di Pechino, l’immagine di benessere e di normalità sotto un governo benevolo che la leadership cinese vuole dare del Tibet. Sempre da fonti della dissidenza o indipen­denti si apprende che nell’ultimo decennio il governo ha introdotto leggi e regolamen­ti che consentono un maggiore controllo sulle istituzioni monastiche e sul riconosci­mento della reincarnazione, centrale nella successione delle guide religiose (lama) del buddhismo locale. Come conferma Thubten Samdup, «dopo la rivolta del 2008 il governo ha convoca­to il 5° Forum operativo sul Tibet per rivedere le sue po­litiche e formularne di nuo­ve. Con una mossa senza precedenti, il forum inclu­deva tutte le aree tibetane al di fuori della Regione auto­noma. Una strategia che suggeriva una volontà di in­tegrazione di tutte le aree già parte del Tibet storico. Il ri­sultato che noi vediamo è che la repressio­ne si è estesa dalla Tar alle altre zone». Un recente rapporto di Human Rights Wat­ch segnala che Pechino, nella contea di N­gaba dove si è registrato il maggior numero di atti di suicidio per protesta, spende per «ragioni di pubblica sicurezza» quattro vol­te e mezzo più della media della provincia del Sichuan. Tutto questo – oltre alla crescente pressio­ne demografica ed economica della mag­gioranza Han, il depauperamento delle ri­sorse locali e il degrado ecologico – ha schiacciato nell’angolo i tibetani, portan­do alcuni a individuare come unica possi­bilità una protesta estrema, affinché la co­munità internazionale possa conoscere il dolore e la disperazione che essi sperimen­tano.
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