«Quanti tibetani dovranno ancora sacrificarsi prima che il mondo si svegli?». La domanda di Thubten Samdup, rappresentante del Dalai Lama per l’Europa settentrionale e già membro del Parlamento tibetano in esilio, ha il senso di un appello. Accorato e urgente, per evitare altre vittime, ma anche per arrivare a una soluzione definitiva ed equa della situazione del suo Paese. Quindici tentativi di immolazione da marzo 2010 da parte di religiosi tibetani in diversi monasteri e località in Tibet hanno portato a un diverso livello di attenzione per la protesta degli abitanti contro l’occupazione cinese. Una tendenza preoccupante quella dei suicidi pubblici che emerge – tra le pieghe della repressione e di una realtà sovente ignorata – attraverso i canali dell’esilio e dei gruppi di sostegno alla causa del Tibet indipendente. Ultimi drammatici esempi di una resistenza disperata e definitiva quelli di un monaco e di un laico che si sono dati fuoco contemporaneamente venerdì scorso nella prefettura di Ngaba, provincia del Sichuan, con la morte di uno e il ricovero in gravi condizioni dell’altro, e di Nyage Sonamdrugyu, religioso del monastero di Nyanmo, nel Qinghai, ai confini con la regione autonoma del Tibet, uccisosi domenica. Un personaggio, quest’ultimo, particolarmente conosciuto: gestiva un orfanotrofio ed era ritenuto un
rinpoche, un 'buddha vivente'. Un sant’uomo che prima di immolarsi ha distribuito volantini per far sapere che l’atto estremo non era «per la sua gloria personale ma per il Tibet e per la felicità dei tibetani». Atti, anche questi, che hanno suscitato proteste dei tibetani nelle località dove si sono verificati e una reazione delle autorità che parlano di «gesti di fanatismo», di «elementi sovversivi» quando non di «delinquenti comuni». Atti che sono doppiamente 'definitivi': nel senso della protesta e nel senso di contraddire la nonviolenza radicata nella fede buddhista e da oltre cinquant’anni predicata instancabilmente nel mondo dal Dalai Lama. Tuttavia, come sottolinea Samdup, «quello a cui assistiamo è un chiaro segnale di disperazione. I tibetani sono arrivati a un punto di rottura e il sacrificio della vita è la loro ultima risorsa. Cos’altro potrebbero fare senza danneggiare altri?». «Non solo i monaci, ma tutti i tibetani non hanno diritti sotto i cinesi, che semplicemente non si fidano di loro e non li rispettano, trattandoli come cittadini di seconda classe o come barbari», ricorda ancora l’esponente tibetano in esilio. «Per quanto noi possiamo vedere – precisa Samdup –, i casi di protesta estrema non sono isolati, ma riguardano diverse località del Tibet storico. Non dimentichiamo, infatti, che il Paese di cui rivendichiamo l’indipendenza era assai più esteso dell’attuale Regione autonoma tibetana ( Tar), includendo anche aree ora integrate nelle province di Sichuan, Yunnan, Gansu e Qinghai. Ad esempio – prosegue Thubten Sandup – la mia famiglia è originaria del Sichuan, Sua Santità il Dalai Lama del Qinghai...». La politica del governo cinese nella Regione autonoma e al di fuori di essa poco concede alla sensibilità degli abitanti, alla loro cultura, religione, lingua e identità; raramente tiene conto del loro parere su questioni che li riguardano strettamente. A parere dei tibetani della diaspora, del governo in esilio in India e della rete di solidarietà internazionale alla causa, dal limitato tentativo insurrezionale del 2008 la repressione cinese è stata senza precedenti. Sono aumentati arresti arbitrari, incarcerazioni, esecuzioni senza giusto processo e scomparse. Si è registrata una maggiore sorveglianza dei monasteri e una presenza costante della polizia al loro interno; tutti elementi che contraddicono le pretese di normalizzazione di Pechino, l’immagine di benessere e di normalità sotto un governo benevolo che la leadership cinese vuole dare del Tibet. Sempre da fonti della dissidenza o indipendenti si apprende che nell’ultimo decennio il governo ha introdotto leggi e regolamenti che consentono un maggiore controllo sulle istituzioni monastiche e sul riconoscimento della reincarnazione, centrale nella successione delle guide religiose (lama) del buddhismo locale. Come conferma Thubten Samdup, «dopo la rivolta del 2008 il governo ha convocato il 5° Forum operativo sul Tibet per rivedere le sue politiche e formularne di nuove. Con una mossa senza precedenti, il forum includeva tutte le aree tibetane al di fuori della Regione autonoma. Una strategia che suggeriva una volontà di integrazione di tutte le aree già parte del Tibet storico. Il risultato che noi vediamo è che la repressione si è estesa dalla Tar alle altre zone». Un recente rapporto di Human Rights Watch segnala che Pechino, nella contea di Ngaba dove si è registrato il maggior numero di atti di suicidio per protesta, spende per «ragioni di pubblica sicurezza» quattro volte e mezzo più della media della provincia del Sichuan. Tutto questo – oltre alla crescente pressione demografica ed economica della maggioranza Han, il depauperamento delle risorse locali e il degrado ecologico – ha schiacciato nell’angolo i tibetani, portando alcuni a individuare come unica possibilità una protesta estrema, affinché la comunità internazionale possa conoscere il dolore e la disperazione che essi sperimentano.