È «indignata» la Cina, per «l’affronto» americano di vendere missili Patriot all’isola “ribelle” di Taiwan. E l’indignazione non potrebbe arrivare in un momento meno propizio, sulla scia delle scaramucce sino-americane sulla libertà via Internet per il trattamento di Pechino delle aziende occidentali, e a ridosso di un’importante decisione all’Onu sulle sanzioni all’Iran.Ma la vendita di 6,4 miliardi di dollari di armi a Taiwan non è un caso, bensì frutto di una scelta dell’Amministrazione Usa, e viene allora da chiedersi se l’escalation non sia stata cercata, quasi per isolare la Cina e mettere in evidenza la sua ostinazione nell’imporre alla comunità internazionale la sua visione del mondo. Dopo giorni di annunci Usa e minacce di ritorsioni cinesi, ieri Pechino ha fatto il passo ufficiale: con una comunicazione urgente inviata all’ambasciatore americano a Pechino, Jon Huntsman, dal vice ministro degli Esteri cinese He Yafei, ha chiesto agli Stati Uniti di fare marcia indietro sulle armi per Taiwan. La vendita «nuocerà» inevitabilmente ai rapporti tra la Cina e gli Stati Uniti «portando delle conseguenze che nessuno dei due Paesi si augura», dice duramente il comunicato. La prima è la sospensione indefinita dei rapporti militari fra Pechino e Washington. «In considerazione del grave danno e della riprovevole conseguenza della vendita di armi statunitensi a Taiwan, la Cina ha deciso di sospendere le previste visite di scambio militare», ha annunciato il ministero della Difesa cinese. Intanto il ministero degli Affari esteri cinese rincarava la punizione, annunciando «sanzioni rilevanti» per le compagnie statunitensi coinvolte nell’affare con Taiwan. Decisione che ha provocato il «rammarico» del Pentagono, mentre la vendita per il Dipartimento di Stato contribuirebbe invece a «mantenere la sicurezza e la stabilità nello Stretto di Taiwan».Ma Pechino insiste, definendo la commessa «una grossolana ingerenza negli affari interni della Cina che mette gravemente in pericolo la sicurezza nazionale e nuoce alla riunificazione pacifica del Paese». Pechino rivendica la sovranità su Taiwan, che nel 1949 ha dichiarato l’indipendenza dalla Cina. E proprio a questa provincia ribelle Washington vuole vendere armi, autorizzando il Pentagono a fornirle 114 missili intercettori Patriot, 60 elicotteri Black Hawk, equipaggiamento per le comunicazioni dei cacciabombardieri F-16 di Taipei, 2 cacciamine classe Osprey e 12 missili antinave Harpoon.In realtà la vendita di armamenti era stata decisa nell’ottobre 2008 dall’Amministrazione Bush, provocando anche allora la sospensione dei rapporti militari con gli Usa. Il nuovo via libera all’affare, arrivato venerdì, secondo il ministero della Difesa cinese «va contro i principi concordati con Obama durante la sua visita in Cina a novembre». Ma da novembre molto è cambiato. Per cominciare, il motore di ricerca di Internet Google aveva rivelato che alcuni hacker cinesi, probabilmente governativi, avevano violato le mail di alcuni dissidenti, e aveva minacciato di abbandonare il mercato cinese. E venerdì scorso Hillary Clinton non ha esitato a far sapere che «la Cina sarà oggetto di pressione molto forte» affinché inasprisca il suo atteggiamento contro l’Iran. Il tono del segretario di Stato Usa era stato minaccioso: «Adesso che ci allontaniamo dalla via del dialogo, che non ha prodotto i risultati sperati, la Cina deve riconoscere l’impatto che un Iran dotato dell’arma nucleare avrebbe nel Golfo, da dove trae una parte importante delle sue forniture di petrolio».