Macerie nel centro di Beirut - Reuters
Eventi come l’incidente di una settimana fa «velocizzano e fanno precipitare» una crisi politico-istituzionale in corso da anni. Gabriele Iacovino, direttore del Centro studi internazionale (Ce.SI), guarda al presente del Libano con amara lucidità: «Quando avviene qualcosa del genere, c’è sempre un margine di incertezza sulle responsabilità. Io propendo per una deflagrazione accidentale perché, se in un Paese normale una quantità di nitrato di sodio come quella non dovrebbe essere lasciata incustodita, è altrettanto vero che stiamo parlando del Libano. Un Paese afflitto dal malgoverno e paralizzato già da prima della guerra in Siria».
Che cosa aspettarsi dalle manifestazioni di questi giorni? Siamo di fronte a una svolta politica?
In Libano i cambiamenti politici avvengono con il bilancino, tenendo sempre presenti equilibri e geometrie fra comunità, e sono sempre il riflesso di ciò che accade altrove. Detto questo, la storia libanese è un susseguirsi di accelerazioni repentine.
Rispetto al passato, però, ci sono delle importanti novità. Niente è più come prima.
Sì, è vero. Gli Stati Uniti non ricoprono più il ruolo che avevano in passato in Medio Oriente. I cugini siriani sono, per così, dire, distratti dalle loro vicende interne, irrisolte. Hezbollah è diventato, con il passare del tempo, un protagonista più regionale che nazionale: il movimento raccoglie consensi fuori dal Paese perché si è concentrato su istanze sciite, meridionali. E di riflesso, in casa non ha più il credito che aveva prima.
E Teheran?
La Repubblica islamica non può permettersi di vedere Hezbollah arretrare in Libano: il movimento è una pedina fondamentale della dialettica sciita.
Anche per Riad, tuttavia, Beirut rimane un tassello irrinunciabile.
I Saud sono pronti a investire, politicamente ed economicamente, in Libano. Come d’altronde è emerso, in tempi recenti, quando l’allora premier libanese Saad Hariri è stato «trattenuto» a Riad per alcuni giorni e, da là, costretto a dimettersi.
Stiamo comunque parlando di padrini regionali e personaggi interni paludati.
Questo è il problema. Persino Hariri non è più un volto nuovo, di autorevoli non ce ne sono. Ma il vero problema è un altro ancora: il Libano rimane vittima di sé stesso, di un sistema di divisione del potere fra comunità (sunnita, sciita, cristiana) che non rispecchia i numeri veritieri.
Intanto, nelle strade, coloro che stanno protestando sono accomunati dal desiderio di rinnovamento, al di là delle appartenenze. La logica settaria è terminata?
Però questi giovani che protestano tutti assieme non sono sostenuti da nessuna forza politica. Chi potrebbe farlo non si espone, non ha il coraggio di giocare un ruolo. Il presidente francese Emmanuel Macron – ci rendiamo conto, non un politico libanese, ma il presidente francese – è stato l’unico a dire che è arrivato il momento di modificare il patto istituzionale alla base della costituzione.
Qual è la posizione delle Forze armate? È immaginabile uno scenario egiziano, con un direttorio militare che si fa presidenza?
Nella regione, in molti casi l’esercito si è fatto paladino della stabilità, degli interessi della popolazione. Per lungo tempo, le Forze armate libanesi hanno rispecchiato gli equilibri nazionali. Negli ultimi anni, però, la componente sciita è aumentata considerevolmente. Non sappiamo, quindi, come si comporterebbe l’esercito nel caso di un riesplodere della violenza settaria nel Paese. Questa è una delle tante incognite nella crisi libanese.