«La Corte non si è pronunciata nel merito». Per Vincenzo Antonelli, docente di diritto sanitario alla Cattolica di Roma, «i giudici di Strasburgo hanno deciso di non decidere. Però, così facendo, determinerà di fatto la morte di un neonato. A mio avviso, in questo caso avrebbe potuto prendere in considerazione il diritto alla vita, la cui custodia in base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo è ad essa affidata».
I giudici hanno però ritenuto che per Charlie sia meglio morire piuttosto che vivere.
E prima di loro i medici. Ma è proprio questo il vero problema: nessuno di loro può decidere da solo sulla dignità di quella vita. Per questo siamo innanzi a una scelta tragica che non può essere rimessa totalmente ai medici e ai giudici. Bisogna prestare ascolto anche ai genitori.
Eppure, in altri casi, altri giudici si erano pronunciati a favore della vita…
È vero: penso per esempio a quei genitori che per motivi religiosi avrebbero voluto vietare le trasfusioni ai loro figli, oppure ad altri che per convinzioni personali non avrebbero voluto somministrare loro farmaci efficaci: spesso, di fronte a tali situazioni, i giudici italiani si sono schierati dalla parte della vita.
In questo caso, invece, erano i genitori a volere la vita e i medici la morte…
Tutte queste vicende, a mio avviso, insegnano che il volere dei genitori o l’autodeterminazione del paziente da una parte e la scienza medica dall’altra non devono essere assolutizzati, ma al contrario vanno fondati su valori condivisi. Bisogna dunque mettere in atto azioni non solo giuridiche, ma anche culturali, a sostegno della vita. D’altro canto, criterio orientativo per l’operare dei sanitari è quello di proteggere e promuovere la vita.
Lei come avrebbe risolto il “caso” inglese, che poi è il dramma di un neonato?
Innanzitutto, avviando un percorso con i familiari. Questa decisione sul vivere piuttosto che sul morire non avrebbe dovuto esser lasciata alla sola scienza. Soprattutto nel caso dei bambini bisogna con tutti gli sforzi possibili rinsaldare il rapporto tra medici e genitori. Tentare sempre e comunque di ricostruire l’alleanza terapeutica anche quando si interrompe.
Un’alleanza terapeutica che dovrebbe prevenire le sentenze?
La via giudiziaria non può risolvere da sola la complessità e la tragicità di un caso come quello di Charlie. Non si possono accantonare le implicazioni etiche tanto per gli operatori sanitari quanto per i pazienti e i loro familiari. Questa esperienza ci insegna che è necessario un percorso di consapevolezza, anche dei limiti della medicina, per tutti coloro che sono coinvolti in scelte simili.
In punto di diritto, che differenza c’è tra l’aborto e la fine riservata a Charlie?
Al di là del dato di fatto per cui Charlie era un bambino già nato, mentre l’aborto si pratica su feti ancora nel grembo materno, la differenza giuridica è sostanziale: l’aborto secondo la Corte costituzionale italiana deve tener conto del bilanciamento tra i diritti del bimbo e quelli della gestante, mentre nel caso del piccolo Charlie non vi era alcun altro bene da mettere sulla bilancia. Da tutelare c’era invece la sua vita, bene la cui rilevanza costituzionale è stata riconosciuta dal nostro giudice delle leggi.
Non c’è il rischio che questo epilogo condizioni ulteriormente il nostro disegno di legge sulle Dat?
Il dramma del piccolo Charlie sicuramente ravviverà questo dibattito, ma utilizzarlo in chiave ideologica sarebbe un errore. Piuttosto, casi come questi insegnano che una legge da sola non basta: nei nostri ospedali dovremmo dare ai comitati etici il giusto risalto, ed evitare che si ripeta il dramma di Antigone e Creonte. Quello di una legge lontana dai diritti umani.
E quali sono questi diritti? Quelli laicamente indicati dalla nostra Costituzione. A partire dalla difesa della vita.