venerdì 5 gennaio 2024
Il caso di una sedicenne residente nel Regno Unito molestata virtualmente nella realtà aumentata (ma traumatizzata come se la violenza fosse stata fisica) solleva molti interrogativi
Un visore per la realtà aumentata

Un visore per la realtà aumentata - Ansa

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Ragazzine abusate nel metaverso? Purtroppo, sì, accade. E pure spesso. L’ultimo caso venuto a galla riguarda una sedicenne residente nel Regno Unito. Questa volta, però, l’incidente non è stato solo uno spunto di discussione sui rischi legati al mondo digitale. Alla violenza virtuale è seguita una denuncia che ha portato la polizia britannica ad aprire un’inchiesta reale. La prima.

La violenza sessuale nel mondo reale ha aspetti ben precisi. Quella che però avviene nel metaverso, la dimensione generata dalla tecnologia come realtà aumentata o virtuale, è persino difficile da immaginare. Le testimonianze che circolano sul Web, rimbalzate da diversi Paesi del mondo, rivelano dinamiche più o meno simili. Gli utenti accedono ai mondi digitali indossando un visore tridimensionale che dà forma a spazi di fantasia che sembrano veri. È come entrare in un videogioco. Il corpo immerso in questa dimensione prende la forma di un avatar, la versione in bit del proprio alter-ego, capace non solo di muoversi e di esprimersi, con gesti e parole, ma anche di interagire con le riproduzioni digitali delle persone entrate, chissà da dove, nello stesso mondo. Capita così che una minorenne (o meglio, il suo avatar) si ritrovi, da sola, in una stanza con degli sconosciuti adulti che, attivata la funzione “zoom” della vista, cominciano a fissare le sue parti intime. Poi le si avvicinano per “toccarla”. Il contatto, sia chiaro, non è fisico.

L’abuso si concretizza cancellando con una gomma “magica” le parti intime della vittima. Ma la percezione della violenza può essere reale. Soprattutto se i molestatori si spingono fino a commentare: «Non dirmi che non ti è piaciuto». Un’esperienza simile l’ha vissuta due anni fa Nina Jane Patel, una ricercatrice dell’Università di Reading, durante l’esplorazione della piattaforma Horizon Venues, il metaverso di Facebook (oggi Meta), che stava conducendo per uno studio sull’impatto delle esperienze digitali immersive sullo sviluppo. Il fatto che l’abuso sia avvenuto nel mondo virtuale, ha spiegato in un articolo, «non ha diminuito il suo impatto su di me da adulto». Paura, panico, senso di colpa. «Posso facilmente immaginare – ha aggiunto – come possa aver influenzato una bambina». Le indagini della polizia britannica sono scattate proprio perché la giovane vittima ha subito un trauma psicologico assimilabile a quello di una violenza fisica. Il caso solleva diversi interrogativi. E non solo di tipo sociologico. Con quali prove, ci si chiede, gli inquirenti potrebbero incriminare i responsabili nel caso in cui, circostanza non scontata, riuscissero a identificarli tramite gli indirizzi IP? Può l’abuso sessuale essere perseguito penalmente anche se avvenuto in un mondo estraneo alla fisicità del contatto? In sostanza: è forse il caso di rivedere gli attuali ordinamenti giuridici? Il Parlamento britannico ha approvato l’anno scorso una legge sulla sicurezza online che, tuttavia, non compre i rischi che insidiano la tecnologia immersiva e che, secondo gli esperti, è inadatta ad affrontare le sfide del futuro.

L’Institution of Engineering and Technology di Londra ha stimato che la prossima generazione di bambini trascorrerà nel metaverso almeno dieci anni della propria vita. Statistiche in linea con le previsioni di crescita del business generato a livello mondiale: nel 2030, a dirlo è l’Europol, potrebbe valere 1,6 trilioni di euro. Dalle autorità arriva intanto un appello ai gestori delle piattaforme. «Occorre fare di più – ha sollecitato Ian Critchley, responsabile delle operazioni di polizia sulla tutela dei minori – per metterle al sicuro dai predatori». Meta ha messo le mani avanti ricordando che i suoi utenti hanno una protezione automatica che tiene lontano gli avatar sconosciuti.

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