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C’è una guerra silenziosa che la Cina sta già combattendo nei mari. Parallela a quella militare, ha lo stesso potenziale letale, perché rischia di far saltare equilibri geopolitici già fragili. E’ la guerra del pesce, con Pechino che muove, con spregiudicatezza, una vera e propria “armata”, la più grande al mondo. Un’armata di pescherecci. Perché decenni di pesca intensiva hanno progressivamente svuotato i mari cinesi. Spingendo il Dragone a una politica sempre più aggressiva di sconfinamenti nelle acque dei Paesi vicini e in alto mare. Come scrive Asiasentinel “oggi migliaia di navi cinesi stanno pescando nelle acque internazionali, dalla Guinea alla Liberia, dal Senegal a Taiwan, dalle isole Fiji fino al Cile: i pescherecci cinesi stanno setacciando i mari per “razziare” tutto ciò che nuota”. E non si tratta di solo di un’attività “spontanea”, ma di “qualcosa organizzato e promosso dallo Stato”. I dati catturano l’entità del fenomeno. Nel 1979 il volume del pescato era pari a 4,7 milioni di tonnellate, nel 2003 era schizzato a 47,1 milioni di tonnellate. La Cina importa circa 1,1 milioni di tonnellate di prodotti ittici, mentre le esportazioni ammontano a 1,3 milioni di tonnellate. Secondo i dati del ministero dell’Agricoltura cinese, la flotta cinese impegnata nelle acque oceaniche ha aumentato il volume del pescato di quasi il 50 per cento negli ultimi cinque anni. Pechino promette di “contenere” le sue attività, adottando misure per proteggere l’ambiente. L’obiettivo indicato è di ridurre la pesca del 20 per cento entro il 2020, riducendo, al tempo stesso, il numero di pescherecci impiegati a 3mila unità.
La lista degli incidenti e delle frizioni che hanno visto protagoniste delle imbarcazioni cinesi è praticamente sconfinata. Nel marzo 2016, le unità di pattuglia argentine hanno affondato una barca da pesca cinese, la Lu Yan Yuan Yu 010, mentre tentava di fuggire in acque internazionali dopo aver presumibilmente pescato illegalmente al largo della costa della città argentina di Puerto Madryn. Un episodio simile, con tanto di rocambolesco inseguimento di una imbarcazione cinese, la Jing Yuan 626, si è ripetuto nel marzo di quest’anno. Nel novembre del 2016, la guardia costiera della Corea del Sud ha aperto il fuoco su due pescherecci cinesi che avevano minacciato di speronare un'imbarcazione di pattuglia nel Mar Giallo nei pressi di Incheon. Non solo. Le attività di pesca, in alcuni casi, maschererebbero ben altre intenzioni, con gli “avamposti” marittimi che potrebbero trasformarsi in vere e proprie istallazioni militari. Come starebbe già accadendo nell’arcipelago di Vanuatu o nelle isole Fiji. Insomma siamo davanti a un’attenta regia.
«Le autorità cinesi considerano i pescatori e i pescherecci come uno strumento prezioso per espandere la presenza del paese e per le sue rivendicazioni nelle acque contese», ha detto Zhang Hongzhou, un esperto della S. Rajaratnam School of International Studies dell’Università tecnologica Nanyang di Singapore. «I pescatori sono sempre più in prima linea nelle dispute nel Mar Cinese Meridionale», ha raccontato Zhang, «e le controversie per la pesca potrebbero far aumentare le tensioni a livello diplomatico e per la sicurezza tra la Cina e i paesi nella regione».
Inquietanti anche le ricadute ambientali. Perché se, fino a pochi decenni fa, la pesca in alto mare era resa impossibile dalle difficoltà tecniche che essa comporta, oggi questi “ostacoli” sono largamente superati. Oggi non solo navi cinesi, ma anche di Taiwan, scaricano quantità colossali di plastica. E le previsioni sono funeste: entro il 2050 ci sarà più plastica che pesce negli oceani del mondo.