martedì 19 novembre 2024
La storica: «Distinguere il valore penale e giuridico del termine da quello simbolico di distruzione di un popolo»
Foa: «Genocidio? Parola tabù in Israele. Bene che il Papa l’abbia pronunciata»
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«Penso che questa sia una guerra di Israele contro il popolo palestinese e non solo contro Hamas». Parola di Anna Foa, storica che ha dedicato la vita allo studio dell’ebraismo e della Shoah.

Che effetto le hanno fatto le parole del Papa sulla possibilità di un genocidio?

Mi hanno fatto effetto, perché di genocidio si parla molto ma anche poco. Se ne parla molto nelle manifestazioni e nei tribunali, poco nel dibattito italiano e internazionale. Non se ne parla nel mondo ebraico della diaspora. Sembra un tabù antisemita. Non risuona in Israele nemmeno negli ambienti più ostili al governo, mentre termini quali “colonialismo” e “apartheid” sono usatissimi a livello accademico e su giornali come Haaretz, per quanto siano considerate antisemite dal governo di Netanyahu e da una parte della popolazione. La parola “genocidio” è forte. Ed è un bene che il Papa l’abbia pronunciata, che esca dai tribunali e che sia possibile discuterne.

In più occasioni il Papa ha condannato l’antisemitismo, definito «un peccato contro Dio». Di recente ha ricevuto in udienza ex ostaggi, nei mesi scorsi aveva incontrato i loro familiari. Perché le sue parole sulla legittimità di investigare su un eventuale genocidio a Gaza hanno suscitato reazioni tanto dure da parte di Israele?

In quanto discendenti di uno dei più terribili genocidi della storia sanciti dal diritto internazionale, gli ebrei israeliani sono scossi da un brivido quando li si accusa di genocidio. Io sono convinta che lo stesso massacro del 7 ottobre sia stato un atto genocidario. D’altra parte, Netanyahu e il suo governo denunciano ogni critica come un atteggiamento antisemita e descrivono Israele come isolato nel mondo e circondato da antisemiti. Qualsiasi voce dissenziente nei confronti del governo viene accusata di antisemitismo.

A chi spetterebbe indagare per verificare se a Gaza è in atto un genocidio? Israele non riconosce la Corte penale internazionale dell’Aja e accusa l’Onu di essergli ostile...

Dovrebbe indagare la Corte penale internazionale. Il fatto è che, prima la guerra in Ucraina e poi quella in Medio Oriente, hanno affossato tutto il processo di creazione di tribunali internazionali che dopo la Seconda guerra mondiale aveva protetto i civili nei conflitti. Dal 1945 in poi, l’elaborazione giuridica ha definito i reati di genocidio e di crimini contro l’umanità. Mi sembra che ora, nelle guerre in corso, tutto questo stia scomparendo. Lo stiamo perdendo.

Qual è la sua opinione su quanto sta accadendo a Gaza?

Penso che bisognerebbe lasciare le disquisizioni prettamente giuridiche ai tribunali internazionali. E spero che un giorno possano essere messi nelle condizioni di esprimersi. I crimini commessi a Gaza sono intenzionali? Che cosa serve per dimostrare l’intenzionalità? Bastano le affermazioni del governo? Lasciamo discutere tutto questo alle corti. Personalmente, credo che siamo di fronte quanto meno a crimini di guerra. Parlare di genocidio, in questo momento, ha un forte valore simbolico per indicare il massimo di distruzione di un popolo. In una situazione, va ricordato, in cui Israele non consente la presenza di osservatori internazionali: nessuno può entrare a Gaza. Quanto al valore penale e giuridico del termine “genocidio”, lasciamolo agli organismi internazionali deputati a indagare.

La società israeliana è ancora sotto choc dopo gli orrori del 7 ottobre. Ma questo significa che non si può parlare della sofferenza dei palestinesi senza urtare la sensibilità degli ebrei?

Dopo il 7 ottobre, gli ebrei israeliani si sentono incapaci di avere una piena adesione empatica con le sofferenze altrui. Tacciono. Anche se nel Paese c’è una forte opposizione, determinata e chiara, nei confronti del governo, a partire dagli ambienti universitari. Il bisogno di tacere nasce dalla paura, dal fatto di vedere a rischio la sicurezza di Israele come Stato, la sua stessa esistenza. Dalla sensazione di accerchiamento. Nelle famiglie, i figli partiti per combattere creano legami fortissimi con l’esercito. Per chi dissente dall’opinione dominante, c’è grande difficoltà a far sentire la propria voce. Dovremmo aiutare di più coloro che lo fanno.

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