Barchini di miliziani Houthi intorno a un mercantile nel Mar Rosso - Reuters
Suez, Bab el-Mandeb, Malacca, Hormuz, Panama, il Bosforo e i Dardanelli, Gibilterra, lo Skagerrak fra Norvegia e Danimarca. Le vie marittime del mondo passano da qui, dagli Stretti, anche se facciamo di tutto per dimenticarcelo. Strano, perché proprio sul controllo di quelle piccole lingue di mare più che sulle conquiste territoriali si sono edificati imperi, a cominciare da quello britannico. Padroni del mare, già duecento anni fa gli inglesi affiancavano all’impero che si stendeva ai quattro angoli del mondo un’accorta politica degli Stretti, che assicurava alla corte di St. James il virtuale controllo delle vaste colonie e degli snodi marittimi più importanti del mondo.Così come attorno agli Stretti si sono addensate certe crisi internazionali (pensiamo solo a Suez quando nel 1956 il presidente egiziano Nasser decise di nazionalizzare il Canale) e come a certi sbocchi al mare hanno puntato senza riuscirvi grandi imperi come quello degli zar, che sognavano di conquistare Costantinopoli e accedere in piena libertà ai mari caldi.
Ora che la cronaca di guerra bussa alle porte, la geografia, anzi la sua consorella più nobile, la geopolitica, si prende la sua rivincita ricordandoci dell'esistenza dei famigerati choke points – letteralmente: “strozzature” o anche “colli di bottiglia” – quei passaggi obbligati attraverso i quali il mondo comunica via mare e da dove in tempo di pace e prima delle convulsioni succedute all’invasione della Crimea e all’incendio che divampa in Medio Oriente, transitava l’80% delle merci del pianeta e il 54% del grano e dei fertilizzanti. Il quadro strategico non è cambiato di un millimetro rispetto agli anni d’oro dei grandi imperi marittimi. Gli Stretti dominano sui costi e i noli delle merci e delle navi, le accidentali interruzioni del flusso perpetuo del naviglio mondiale (oltre un milione di navi fra commerciali e militari li percorrono quotidianamente) si ripercuotono all’istante sull’economia del pianeta. Come accadde nel marzo di tre anni fa, quando la gigantesca porta-container taiwanese Ever Given si mise di traverso nel Canale di Suez provocando il panico sui mercati e un immediato rialzo del greggio.
Le guerre in corso in Medio Oriente e nel Mar Nero amplificano e confermano l’importanza degli Stretti e insieme la loro vulnerabilità. Cosa che i cinesi avevano compreso fin dagli anni Ottanta, quando Deng Xiaoping a colloquio con Ronald Reagan riconobbe che la vera disputa fra Cina e Stati Uniti avrebbe riguardato il controllo del Mar Cinese Meridionale e in prospettiva quello dello Stretto di Malacca, il secondo varco mondiale dopo Hormuz, sul quale Washington faceva e fa tuttora buona guardia e dal quale passa gran parte delle merci cinesi destinate all’Europa.
«Basterebbe chiuderlo un mese e l’economia del Dragone crollerebbe», hanno sempre fatto affidamento gli strateghi americani. E proprio la dipendenza di Pechino dallo Stretto di Malacca è in parte all’origine della Belt Road Initiative, la via di terra con cui Pechino ha tentato di aggirare la propria debolezza sui mari.
Anche per questo Russia e Cina puntano ad aprire una nuova rotta commerciale: da Mosca è stato rilanciato il molto discusso Passaggio a Nord-Est, che a causa del progressivo scioglimento dei ghiacci artici sta delineando una sorta di autostrada marittima fra l’Oceano Pacifico e l’Atlantico del Nord, dallo Stretto di Bering al Mare di Barents. Una rotta nordica speculare al famigerato (ma molto costoso) Passaggio a Nord-Ovest, con un risparmio di quasi 7.500 chilometri sulla tradizionale rotta indo-pacifica, ma soprattutto una via d’acqua che oltre all’importanza commerciale rivestirebbe una cruciale importanza strategico-militare.
«Spaccheremo i denti a chiunque pensi di sfidare la nostra sovranità – ha dichiarato pubblicamente Vladimir Putin -. L’America sappia che non c’è Russia senza Artico e non c’è Artico senza Russia». La prossima guerra fredda - pardon: artica – fra Russia e America è già cominciata. Nello Stretto di Bering.