Tutti si aspettavano un Israele dal “braccio forte” pronto dopo l’operazione “Colonna di nuvole” a Gaza, a colpire duro – Casa Bianca permettendo - anche in Iran. Ora a sorridere, più che la “destra hi-tech” di Naftali Bennet legata ai coloni è il nuovo centro di Yair Lapid. Non pare sorpreso Menachem Klein, politologo dell’università Bar Ilan di Gerusalemme e tra i firmatari degli accordi di Ginevra del 2003.
Netanyahu ha detto di voler formare un governo «il più largo possibile» e come prima condizione ha posto l’impegno di fermare il programma nucleare iraniano. Professor Klein, una politica aggressiva contro Teheran è ora possibile?Direi proprio di no, perché Netanyahu non può ottenere il sostegno del Parlamento, qualsiasi sia la coalizione che vada a realizzare. Inoltre resta la ferma opposizione dell’Amministrazione Obama.
L’altra notte, quella del «pareggio», il leader del Likud ha telefonato a Lapid prevedendo «grandi cose insieme». Lapid ha invece auspicato un «cambiamento», vale a dire ripresa dei colloqui con i palestinesi. Difficile un accordo con Likud e Israel Beitenu, non crede?Qualsiasi coalizione Netanyahu andrà a costruire, ripeto, avrà problemi. Nessuna decisione sostanziale potrà essere presa senza creare uno sfaldamento. Se il nuovo premier deciderà di riprendere i negoziati con i palestinesi, questo si scontrerà frontalmente con i partiti della destra religiosa e con il Likud, che ha una rappresentanza parlamentare estremista. Ugualmente, se si tenterà la riforma del servizio militare per gli ultra-ortodossi, perderà immediatamente il loro appoggio. In questa situazione Netanyahu potrà prendere tempo, fare promesse a tutti, ma in un sostanziale immobilismo. Il problema è che anche Lapid, che ha fatto appelli al cambiamento, guida un partito in cui nessuno ha una significativa esperienza politica e all’esordio deve giocare subito sul difficile tavolo dei compromessi. Il successo di Yesh Atid è giocato sulla comunicazione in campagna elettorale, sull’immagine televisiva del suo leader. Anche lo Shinui, il partito del padre Tommy Lapid, ebbe un grande successo facendo promesse e nel 2003 raggiunse 16 seggi. Alla tornata successiva, non potendo mantenere le sue promesse, è scomparso.
Un quadro di grande instabilità, direi. Alcuni pensano che ieri è partito un reale cambiamento, altri già prevedono nuove elezioni entro un anno. Quale ipotesi la convince di più?In Israele dobbiamo avere un governo, che non può che essere di coalizione. Una coalizione deve poter durare quattro anni e non può essere composta solo di 62 deputati, ma almeno 71-72. Ma, lo ripeto, qualsiasi coalizione sarebbe artificiale: i componenti finirebbero per combattersi fra di loro senza potere affrontare i problemi reali. Di fatto sarebbe un governo paralizzato. Qualsiasi compromesso sarà più debole delle grandi divisioni fra i diversi partiti.
In campagna elettorale si è parlato molto di nuovi equilibri regionali, di una nuova politica estera di Gerusalemme. Quanto hanno pesato, invece, dentro le urne i temi economici e sociali?Certamente moltissimo: i temi sociali ed economico sono stati la prima preoccupazione. Nessuno ha votato per risolvere il problema palestinese: il partito della Livni, che chiedeva si riprendere il processo di pace, ha raccolto poco o nulla. Il voto per Lapid in fondo è un voto di protesta, contro la destra che resta comunque la formazione più forte e contro la sinistra, ma non è chiaro che tipo di cambiamento proponga. Dal 1976, in ogni elezione, abbiamo un partito di centro: la protersa di centro rimane, cambiano i partiti.