Una mamma palestinese con il figlio in terapia in Israele sull’auto che li trasporta in ospedale: si tratta di uno dei casi che vengono seguiti dai volontari del gruppo - Road to recovery
L’appuntamento è alle 12. Utzi arriva puntuale a bordo della sua auto grigio metallizzata. Ala è già nel piazzale dell’enorme complesso di Sheba, il principale ospedale di Israele, a Ramat Gan, nel distretto di Tel Aviv, e lo saluta con la mano. Afferra con cautela la maniglia dello sportello posteriore su cui, come sulle altre, spicca un nastro giallo, omaggio agli ostaggi catturati da Hamas il 7 ottobre. Dopo averlo sollevato delicatamente dalla sedia a rotelle, adagia Amin, 7 anni, sul sedile. Poi, con una mossa rapida, piega la carrozzella e la mette nel portabagagli. Infine si sistema accanto al piccolo. «Si parte?», domanda Utzi in ebraico. «Jalla», cioè «andiamo» in arabo, risponde Ala. La scena si svolge con una naturalezza dirompente. Un uomo dà un passaggio a un altro che viaggia in compagnia del figlio malato. Eppure, in una terra di muri invalicabili, questo gesto apparentemente ordinario sovverte, di colpo, lo status quo. Perché Utzi Itzha, 83 anni, è un israeliano della zona di Tel Aviv mentre Ala Hori, 40 anni, è un palestinese di Ram, cittadina di 50mila abitanti della Cisgiordania. Poco più di 70 chilometri dividono queste due località. Ancor meno ce ne sono tra Ram e l’ospedale Sheva. Eppure, a causa della barriera di check-point che blinda i Territori, Ala impiegherebbe almeno quattro ore per raggiungerlo con il trasporto pubblico. Sempre se ci fosse e potesse utilizzarlo. Non è, però, così.
«Dal valico più vicino, quello di Nahalin, come da tutti gli altri, non esistono bus. Potrei fare il giro da Qalandia e arrivare a Gerusalemme Est. Da lì, però, prendere un mezzo per Tel Aviv diventerebbe rischioso. Ho il permesso solo per la clinica, la polizia o i militari potrebbero pensare che sto andando in giro per Israele e fermarmi. Possono? Beh, lo fanno. Poi la gente diventa sospettosa quando ci vede sui pullman e gli autisti, spesso, non ci fanno salire», racconta Ala in un ebraico che Utzi traduce in inglese. L’alternativa è il taxi: ne occorrono due tra Ram e Nahalin, al costo di 17 shekel, circa 4 euro. Dal check-point a Sheba, però, il prezzo lievita esponenzialmente: tra i 250 e i 400 shekel (tra i 60 e i 100 euro circa), a seconda dell’ora, del giorno e dello status del conducente, gli abusivi prendono meno. Poi c’è il ritorno. «Faccio questo tragitto almeno due volte al mese da tre anni. Allora Amin ne aveva quattro ed era stato ricoverato per l’ennesima volta all’ospedale di Ramallah per un disturbo alle gambe che aveva dalla nascita. Non erano mai riusciti a curarlo. Anzi, dopo l’intervento era peggiorato tanto da non potere più camminare. I medici ci hanno consigliato di portarlo in una struttura israeliana. Dopo una lunga trafila ho avuto il permesso. Allo Sheba lo hanno operato di nuovo e, dopo tre mesi, Amin ha iniziato a muovere i primi passi. Deve, però, fare controlli costanti. Le cure sono pagate dall’Autorità nazionale palestinese (Anp). Ma non avrei mai potuto affrontare i costi di trasporto. Specie ora: da quando, dopo il 7 ottobre, hanno congelato il mio permesso per lavorare in un hotel di Ber Sheva, in Israele, sono disoccupato e ho altre tre figlie e una moglie da mantenere».
Se Amin viene assistito regolarmente è grazie a “Road to recovery”, associazione israeliana nata ufficialmente nel 2010, anche se i “passaggi” sono cominciati prima, dalla metà degli anni Duemila. Utzi è uno dei 1.300 volontari che, una o due volte alla settimana, fa la spola tra i vari valichi e le cliniche per accompagnare i piccoli malati e i loro genitori. «In genere, una persona li porta e un’altra li va a riprendere, dipende dalle disponibilità e dalla quantità di pazienti. Normalmente ne abbiamo tra i 30 e i 50. Stavolta è stato un record: 200. Non tutti i 1.300 guidano al momento perché molti sono sfollati del nord e del sud e non hanno con loro le vetture. In termini di tempo e risorse è una piccola cosa: dare un passaggio. Dietro, però, c’è molto di più. Nel tragitto le persone si trovano faccia a faccia, si parlano, se vogliono, o stanno in silenzio. Ma insieme. Non accade di frequente a israeliani e palestinesi», racconta Yael Noy, direttrice di Road to recovery dal giugno 2023. Si è trovata, dunque, alla guida nel tempo della guerra più terribile che, tra l’altro, ha colpito direttamente l’associazione. Cinque volontari – Vivian Silver, Eli Orgad, Adi Dagan, Tammy Suchman e Hayim Katsman – sono stati massacrati da Hamas nei kibbutz intorno a Gaza. Altri tre – Chaim Peri, Oded e Yocheved Lifschitz – sono stati sequestrati. Solo quest’ultima è tornata a casa «per ragione umanitarie» il 23 ottobre scorso. Di Chaim, l’esercito ha recuperato il corpo il 20 agosto. Oded è ancora prigioniero.
«Li conoscevo tutti personalmente. Data la vicinanza geografica, si incaricavano di portare i bambini della Striscia nei diversi centri di cura israeliani. A lungo ho coordinato quella parte di programma ora sospeso a causa del blocco dell’enclave. I viaggi dalla Cisgiordania, però, non si sono mai interrotti anche nel nome dei nostri volontari vittime di Hamas» sottolinea la direttrice. L’8 ottobre 2023, il giorno dopo la strage, Road to recovery ha portato un piccolo di Jenin all’ospedale Ramban di Haifa per fare la dialisi. E, tuttora, fra gli “autisti” ci sono due sopravvissuti di Be’eri e Saad. «Incontrarsi in una situazione normale, come un tragitto in macchina, aiuta ad avere meno paura gli uni degli altri. A costruire fiducia. Non è sempre facile, tanti ci criticano, per questo, ora più che mai, associazioni come la nostra hanno ancora più necessità del sostegno del mondo. Non ci illudiamo di mettere fine alla guerra guidando. Ma è l’inizio di un cammino. Un viaggio». Quando gli viene domandato perché abbia deciso di continuare dopo il 7 ottobre, Utzi risponde semplicemente: «Perché i bambini malati restano malati . E chi soffre resta chi soffre. Anche dopo il 7 ottobre».