giovedì 24 ottobre 2024
Il governo avrebbe discusso domenica la proposta della società israelo-statunitense Gdc, attiva in Afghanistan e Iraq. I timori di una "ri-colonizzazione"
La devastazione nel nord di Gaza, epicentro dei nuovi combattimenti

La devastazione nel nord di Gaza, epicentro dei nuovi combattimenti - Ansa

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«Internet e telefoni non vanno. Non sappiamo che cosa stia accadendo a Jabalia, Beit Lanoun e Beit Lahiya. Siamo molto preoccupati». Il tono di Ajith Sunghay, capo dell’ufficio dell’Alto commissario Onu per i diritti umani in Palestina, è accorato. «Non possiamo portare cibo, riceviamo notizie di arresti, gli ospedali sono sotto assedio. Le condizioni sono invivibili per la popolazione. Temiamo che, in questo contesto, che ci sia uno sfollamento forzato della popolazione», prosegue Sunghay. La preoccupazione è stata sollevata da più parti da quando, il 6 ottobre scorso, è cominciata la terza offensiva nella parte più settentrionale dell’enclave. Proprio ieri, l’esercito israeliano ha annunciato l’evacuazione di almeno 20mila persone da Jabalia sotto assedio. Lo spettro dell’esodo rafforza la paura che i combattimenti, per quanto feroci, siano solo una parte della “battaglia di Gaza nord”. Là sembra, in realtà, giocarsi il futuro dell’intera enclave nel dopoguerra. Il primo campanello d’allarme sono state le parole pronunciate dal premier Benjamin Netanyahu all’Assemblea generale Onu il 27 settembre. «Hamas vende il cibo rubato a prezzi esorbitanti. È così che si mantengono al potere. Beh, tutto questo deve finire. Stiamo lavorando affinché accada», ha tuonato il leader a Palazzo di Vetro, senza dare ulteriori dettagli. L’uccisione di Hassan Nasrallah, appena qualche ora dopo, però, ha spostato l’attenzione nazionale e internazionale sul fronte nord. Solo con l’avvio della terza offensiva nell’estremità più settentrionale della Striscia, gli analisti hanno cominciato a pensare che la dichiarazione del premier alludesse a qualcosa in più della necessità di minare il consenso sociale del gruppo armato, togliendogli la “leva dei soccorsi”. Fonti militari hanno allertato sull’intenzione del governo di trasferire il trasporto e la distruzione degli aiuti nella Striscia alle forze armate. La proposta è subito naufragata per la ferma opposizione dell’esercito secondo cui l’aumento dei contatti con la popolazione avrebbe incrementato i rischi per i soldati. Il “piano Netanyahu”, però, è andato avanti. Rispolverando e perfezionando l’ipotesi, circolata a febbraio, di trasferire il controllo delle operazioni umanitarie a compagnie private. Domenica, in particolare, secondo fonti ben informate verificate da Avvenire, il gabinetto di sicurezza ha esaminato la proposta di Global delivery company (Gdc), società Usa dell’israelo-statunitense Moti Kahana, fervente sostenitore di Joe Biden e Kamala Harris. Il «taxi per le zone di guerra», si definisce l’azienda, pronta – come ha spiegato lo stesso Ceo – a mettere a frutto a Gaza l’esperienza maturata in Afghanistan dopo l’11 settembre. E perfezionata in altri tre teatri bellici: Iraq, Siria e Ucraina. In quest’ultima, ha lavorato insieme a Constellis, erede della Blackwater, controversa compagnia di contractor, denunciata per gli abusi sui civili a Baghdad. Anche nella Striscia, dovrebbero lavorare in partnership con l’obiettivo di creare «comunità recintate». Punti “Hamas-free” in cui i gazawi potrebbero trasferirsi – con la possibilità di entrare e uscire liberamente – dopo essere stati sottoposti a esami biometrici in modo da escludere che si tratti di miliziani. All’interno di queste “bolle”, riceverebbero assistenza umanitaria e potrebbero anche dotarsi di una sorta di amministrazione locale per gli affari correnti. Gpc, insieme ai contractor di Constellis, garantirebbero la sicurezza, consentendo l’entrata solo ai residenti. Il progetto pilota dovrebbe essere realizzato nel nord di Gaza per poi estendere le “comunità recintate” a sud del corridoio Netzarin, la strada con i check-point allestiti da Israele, che attualmente spezza in due la Striscia. Il piano – su cui le autorità israeliane dovrebbero pronunciarsi a breve – ha suscitato forti perplessità perché sembra confermare l’intenzione di riportare la Striscia sotto il controllo di Tel Aviv. Non direttamente, però, ma appaltando «la responsabilità morale e legale» – si legge in un durissimo editoriale di Haaretz – a compagnie di sicurezza private. La cui convivenza con le organizzazioni umanitarie internazionali sarebbe, quantomeno, difficile.Del resto nella stessa riunione di domenica, il gabinetto di sicurezza ha discusso contestualmente le leggi per mettere al bando l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa) su cui il Parlamento dovrebbe esprimersi la settimana prossima. Dal nuovo assetto, inoltre, sarebbe tagliata fuori, ancora una volta, l’Autorità nazionale palestinese (Anp). Resta, poi, la questione di che cosa ci sarebbe nel resto del territorio, fra le varie “comunità recintate”. Probabilmente avamposti militari, per combattere le cellule rimaste di Hamas. Il che acuisce il dubbio che si voglia ripetere il “modello-Cisgiordania”, come detto esplicitamente dall’ala più a destra della coalizione. Ovvero utilizzare quelle basi dell’esercito come punto d’appoggio iniziale per la costituzione di nuovi insediamenti. Illegali, in principio, oltre che per il diritto internazionale anche per quello israeliano. Ma pian piano “normalizzati”. La soluzione è stata indicata pubblicamente dalla stessa Daniela Weiss, leader del movimento estremista Nachala, all’evento organizzato lunedì per «preparare la ricolonizzazione dell’enclave». Netanyahu ha finora, in più occasioni, definito «irrealistica» l’idea: all’incontro di Nachala nella Foresta di Be’eri, però, hanno partecipato quattro ministri e sette parlamentari, molti del suo stesso partito. «Non ho idea delle intenzioni del governo – conclude Sunghay –. So, però, che la gente del nord ha molta paura di attraversare Netzarin perché teme di non potervi più tornare. Di perdere la propria terra, ancora una volta".

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