Il messaggio ai cristiani rifugiati in Giordania di Papa Francesco recato da monsignor Galantino è pure un riconoscimento delle «comunità che hanno saputo farsi carico di chi fugge dalla persecuzione». In un’intervista ad «Avvenire» che si può leggere integralmente nell’edizione in edicola venerdì 7 agosto monsignor Maroun Lahham, vescovo di Amman, spiega in cosa consiste il loro impegno nell’accoglienza. «All’inizio - racconta - ci fu l’iniziativa del re di Giordania che ha subito voluto soccorrere mille cristiani iracheni spogliati di tutto, alcuni senza passaporto. Subito ne sono venuti altri mille, tutti con la speranza di potere presto andare in Europa o in Australia. Con la stessa speranza ne sono arrivati molti altri: adesso sono quasi 8mila. La Chiesa, tramite la Caritas e altre associazioni, fornisce alloggio nella sale parrocchiali, negli appartamenti per cui paghiamo l’affitto, procura cibo, cure mediche, acqua e luce. Tra questi ci sono circa 1.700 studenti che hanno perso l’anno scolastico. Stiamo pensando a un progetto, in collaborazione con il Ministero dell’Educazione, per aprire le nostre scuole nel pomeriggio per far fare a loro un percorso di studio che sarà riconosciuto nel curriculum. Un progetto di cui parleremo anche con il segretario della Cei, monsignor Galantino». Quanto a un possibile ritorno a casa dei profughi, Lahham spiega che «dipende da quando e se verranno liberate Mosul e la Piana di Ninive», e ciò avverrà «solo quando sarà negli interessi di qualcuno, ma non certo per liberare i cristiani». Intanto dalla Giordania «non c’è nessun tipo di emigrazione: le ambasciate straniere ci dicono che l’attesa sarà di almeno 4 o 5 anni. Questa gente non ha nulla, non può lavorare perché se lo facesse perderebbe lo status di profugo. Sono totalmente dipendenti dalla Caritas ma noi non sappiamo come poter assicurare questi aiuti per 4-5 anni».
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