martedì 22 ottobre 2024
Il racconto ad "Avvenire", attraverso una serie di messaggini inviati online, di Ikhlas, giovane madre sfollata dal campo di Jabalia, nel Nord della Striscia di Gaza
Palestinesi sfollati fuggono dalla parte settentrionale di Gaza nel corso di un'operazione militare israeliana, a Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza

Palestinesi sfollati fuggono dalla parte settentrionale di Gaza nel corso di un'operazione militare israeliana, a Jabalia, nel nord della Striscia di Gaza - Reuters

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Quando si è svegliata di soprassalto alle due di notte del 14 ottobre, si è resa conto che la sua casa e le altre abitazioni del vicinato dentro il campo di Jabalia, Nord di Gaza, si trovavano sotto attacco. Tra i boati del bombardamento, il primo pensiero è stato quello di afferrare suo figlio Samir, un anno e sette mesi, nasconderlo tra le braccia e restare seduta. «Il mio corpo tremava violento per la paura. Per l'intensità del tremore mi pareva che i denti quasi si rompessero. In qualsiasi momento potevamo morire».

Ikhlas Abu Rayash, giovane madre di 27 anni lo racconta ad Avvenire in una serie di messaggi online. Un buco nel soffitto del vano scale, un altro nel corridoio, solo con la luce del giorno lei, il marito e il bambino si sono arrischiati a lasciare la casa in macerie.

«Abbiamo aspettato che sorgesse il sole, soffocando tra l'odore di zolfo e la polvere dei calcinacci. Ci siamo rifugiati a un chilometro di distanza, da un amico». Quello di Jabalia è il più grande degli otto campi profughi storici di Gaza. Da giorni è epicentro di durissimi combattimenti, dopo il lancio di una nuova offensiva israeliana per impedire ad Hamas di «ricostruire le sue capacità operative» nell’area. Medici senza Frontiere (Msf), nel campo con cinque membri del proprio staff, l’11 ottobre parlava di «migliaia di persone intrappolate, mentre le forze israeliane attaccano la zona».

Amnesty International ha riferito di «scene particolarmente angoscianti dal campo, per oltre una settimana i residenti hanno avuto paura di uscire di casa, persino di cercare un sacco di farina per timore di essere colpiti dagli onnipresenti droni quadricotteri. È straziante sentire (...) dalle famiglie intrappolate sotto assedio che decine di corpi irriconoscibili sono sparsi per le strade o che le persone non sono in grado di seppellire i propri cari fra incessanti bombardamenti».

A sette giorni esatti dalla distruzione di casa sua, la famiglia di Ikhlas Abu Rayash lunedì era già nuovamente in fuga. «Oggi a mezzogiorno, con gli altoparlanti, l'esercito israeliano ci ha ordinato di evacuare la zona» ha raccontato la donna. «Ora camminiamo da sei ore, siamo una ventina di persone, ci allontaniamo insieme per paura di morire. Non sappiamo dove andare, non abbiamo ancora trovato un posto per la notte».

Nella stessa giornata, su X il portavoce delle Forze di difesa israeliane (Idf) per i media arabi Avichay Adraee riferiva di «diverse centinaia» di residenti che avevano lasciato Jabalia dal mattino tramite «percorsi organizzati». Domenica, in merito agli ordini di evacuazione, l'Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu (Ohchr) sottolineava: «Mentre l’esercito israeliano ha chiesto ai civili di lasciare il Nord di Gaza, ha continuato ad attaccare senza sosta la zona, specialmente dentro e intorno al campo di Jabalia». Nei suoi messaggi Ikhlas Abu Rayash parla delle speranze che nutriva quando Samir è nato.

«Sognavo un ambiente sereno, un’esistenza sicura. Ora mio figlio ha un anno e sette mesi, è cresciuto in un posto malsano ed è malnutrito. Massacro dopo massacro, la paura è diventata un tormento. Eppure noi siamo persone innocenti, non portiamo armi, non lanciamo missili. Siamo persone pacifiche che cercano solo di sfuggire alla morte. Il mondo ci vede morire, ma è come se non ci vedesse».

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