Ansa
«Di meglio non c’è nulla per il semplice fatto che il piano per la pace in Medio Oriente riempie un vuoto lasciato libero dagli altri». Così Armando Sanguini, già ambasciatore italiano in Tunisia e Arabia Saudita, consulente scientifico dell’Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano (Ispi), avvia una riflessione sulla piattaforma programmatica che l’Amministrazione Trump ha illustrato al mondo martedì sera.
Ambasciatore, e se fossimo davvero davanti a una svolta storica?
Io al momento mi limito a constatare le reazioni, in particolare quelle del mondo arabo. La Lega degli Stati arabi ha definito «un primo passo« la conservazione della soluzione dei due Stati, da molti data per morta e sepolta, esortando le parti a un negoziato bilaterale approfondito. Emirati, Oman, Bahrein hanno dato una sorta di semaforo verde all’iniziativa. Persino il Qatar, seppure sempre più vicino all’Iran, non ha bocciato il piano, chiedendo piuttosto maggiori concessioni ai palestinesi. Insomma, una presa di posizione negativa è venuta solo da Turchia e Iran – che arabi non sono –, gli Hezbollah libanesi e gli Houthi yemeniti. Gli arabi sunniti non mi pare si stiano stracciando le vesti. Quanto alla Gran Bretagna, il sostegno al piano è stato immediato. Anche per Parigi, come per l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, si tratta di un primo passo significativo. Tutti sostengono: adesso bisogna studiare la proposta e negoziare. Anche Mosca.
Il percorso tracciato dal piano, infatti, è decisamente lungo e articolato.
Sì, si parla di quattro anni di negoziati, si parla di confini, di Gerusalemme. Alla sua maniera, Trump ha però messo sul piatto un fattore decisivo: 50 miliardi di dollari e un milione di posti di lavoro. Francamente, spero che Abu Mazen (presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Anp) abbia la lungimiranza di accettare la riapertura del dialogo, anche se per ora ha definito la Road map «la pattumiera della storia».
Che cosa ne ricava Trump nell’immediato?
Ha una carta in più per le elezioni presidenziali. E poi, ora sia Benjamin Netanyahu sia Benny Gantz (rispettivamente, premier di Israele e suo principale sfidante al voto del 2 marzo) sono in debito con lui.
Quanto c’è di saudita in questo allungo diplomatico americano?
Da tempo i sauditi hanno aperto un canale di dialogo con gli israeliani, in opposizione all’Iran. Certo il varco aperto da questo piano non favorisce i palestinesi, ma al momento di meglio non c’è.