Commando degli Houthi in azione sa largo delle coste yemenite su una nave israeliana - Ansa
Tira aria di tempesta? L’affondamento di tre barchini degli Houthi da parte di elicotteri americani è una prima avvisaglia. Per la stampa anglosassone, Londra e Washington sarebbero sul piede di guerra, prossime a bombardamenti aerei contro le infrastrutture degli insorti yemeniti, manovrati da Teheran e responsabili di 23 attacchi a navi in transito nel mar Rosso. Il New York Times è certo che il presidente statunitense Joe Biden stia soppesando vantaggi e svantaggi di un’azione più muscolare, chiesta da molti per arginare i ribelli. Il Consiglio di sicurezza nazionale, a Washington, è stranamente silenzioso: i piani di attacco, forse già pronti, sono un segreto ben custodito. Le due potenze anglosassoni avrebbero però tracciato alcune linee rosse invalicabili e starebbero per rilasciare una dichiarazione congiunta, ultimo avvertimento agli Houthi: o cessate gli attacchi o interverremo. Washington e Londra temporeggiano ancora per cooptare altri partner, forse europei o forse regionali. David Cameron, ministro degli Esteri britannico, ha ammonito pochi giorni fa l’omologo iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, accusando Teheran di essere corresponsabile degli attacchi alle navi e invitandola a prevenirli.
Parole vane perché proprio ieri Abdollahian ha ringraziato i “ribelli” yemeniti per il loro «sostegno al popolo palestinese oppresso». Elogi arrivati dopo un incontro fra lo stesso Ministro e il portavoce e capo negoziatore degli Houthi Mohamed Abdulsalam, a riprova dell’alleanza fra Teheran e Sanaa. Per il blog zone militaire, il quadro, già complicato, è reso ancora più insidioso dalla presenza di una fregata iraniana nel mar Rosso, probabilmente accompagnata da un sottomarino. La tensione è palpabile, perché anche il ministro britannico della Difesa, Grant Shapps, è stato inequivocabile: «Se gli Houthi continuano a minacciare le vite degli equipaggi e i commerci, reagiremo con le misure necessarie e appropriate». Portaerei a parte, gli americani hanno una rete di basi militari nel Medio Oriente: l’analista Sheldon-Duplaix ne conta almeno una trentina, che servono da piattaforme logistiche e da trampolino per rinforzi immediati. Difficile però che le basi mediorientali possano tornare utili in questa occasione, imperando fra le opinioni pubbliche arabe un sentimento filo-Gaza. Anche gli Houthi sono in guerra per supportare i palestinesi e, se colpiti, si vendicherebbero contro le infrastrutture occidentali nell’area. Gli americani potrebbero puntare tutto sui jet imbarcati perché nemmeno la base di Gibuti è immune dalle rappresaglie yemenite. I britannici, seguendo gli americani, decollerebbero con i caccia dalla base cipriota di Akrotiri, irraggiungibile per gli Houthi. Abdel-Malek al-Houthi, leader degli insorti, ha subito minacciato «conseguenze negative» per gli anglosassoni e per chiunque si accoderà ai raid. Ma se non si mette un limite agli attacchi yemeniti nel mar Rosso c’è il rischio di emulazione altrove, soprattutto «nel mar Cinese meridionale», dove abbondano missili antinave sofisticati, come ammonisce Shapps.
Le talassocrazie occidentali devono il loro predominio alla potenza marittima. Sanno che di assi contestati è pieno il mare del pianeta e che il contenimento degli Houthi si presenta come «un test per la comunità internazionale». L’Occidente si sta però muovendo in ordine sparso, come sottolinea AnalisiDifesa. Francesi e italiani hanno navi di pattuglia nel Mar Rosso, svincolate dal comando americano; nemmeno la Spagna si è legata le mani. Tutti sprovveduti? Gli europei sanno che è facile iniziare una guerra, più difficile è farla cessare e indirizzarla nel verso desiderato. Siamo sicuri che il conflitto rimarrebbe circoscritto allo Yemen senza allargarsi al Libano, alla Siria, all’Iraq e all’Iran? Servirebbe bombardare gli Houthi? Come tutti i movimenti di guerriglia, gli insorti yemeniti offrono pochi bersagli paganti: basterà colpirne i siti di lancio, i radar e i centri di comando per dissuaderli?
Otto anni di bombe saudite e lutti indicibili non sono bastati a piegarli. C’è poi un’intelligence chiara degli obiettivi, con mappe satellitari e ricognizioni di droni? Lo scenario mediorientale sta peggiorando di giorno in giorno; l’istituto statunitense per gli studi sulla guerra parla di una conferenza stampa allarmante, tenuta il 28 dicembre scorso dal primo ministro iracheno, Mohammed Shia al-Sudani: il governo di Baghdad starebbe per espellere le forze della coalizione internazionale, pressato dalle milizie irachene filo-iraniane, anch’esse in guerra per Gaza. L’Iraq tornerà a farsi santuario del Daesh, contagiando forse la stessa Siria? Assisteremo presto a una nemesi storica, a un patto fra due vecchi nemici? L’Iran e i terroristi, dopo essersi combattuti, potrebbero convergere contro gli occidentali in un’alleanza funzionale ai piani di Teheran, tesa a estromettere gli americani dal Levante e ad accerchiare Israele.
Tel Aviv sta rispondendo da tempo con colpi micidiali, come prova il raid del 31 dicembre a Damasco contro una figura di spicco degli ayatollah: il generale Razi Mousavi, secondo solo a Soleimani, l’ex comandante della Quds Force morto 4 anni anni fa sotto le bombe Usa. Gira e rigira tutte le strade portano a Teheran. Sarà questo il bersaglio finale degli angloamericani? È improbabile per tre motivi: primo per i negoziati in ballo sul nucleare; secondo per l’anno elettorale negli Usa e, terzo, per la priorità dell’Indo-Pacifico sul Medio Oriente nella strategia Usa. La guerra globale è ancora evitabile.