Ogni paillette è una pennellata. Recule lo ripete sempre agli allievi del laboratorio di Cité Soleil, la baraccopoli più povera di Haiti e dell’America Latina. Le mani da chirurgo posizionano le paillettes lungo linee immaginarie. Solo lui, l’artigiano-pittore intuisce il disegno. Poi, d’un tratto, sulla tela ruvida – ricavata dalle tende e trasformata in borse – compare un sole, un albero, un paesaggio. Ha imparato da bambino Recule a lavorare con le paillettes. Appollaiato sul pavimento di terra, trascorreva le ore ad osservare lo zio mentre decorava. Alla fine, era diventato più bravo di lui. Tanto che alla sua morte, Recule aveva rilevato l’atelier di avenue Cupplat, nel cuore della capitale Port-au-Prince. Nonostante la miseria cronica dell’isola, gli affari andavano bene. A 28 anni, Recule aveva finito di costruire la casa per sé, la moglie e i due bimbi. Una dimora di mattoni, non una baracca fatiscente come la maggior parte. Quelle pareti di cui Recule andava tanto fiero, si sbriciolarono come pane quando la frustata sismica colpì Port-au-Prince il 12 gennaio di due anni fa. La furia sismica ridusse la capitale a un inferno di detriti e fango. Recule e la sua famiglia non furono tra le 230mila vittime. Persero, però, tutto: casa, atelier, lavoro. Fino a sei mesi fa, Recule ha vissuto sotto una tenda – come 1,5 milioni di altri sfollati – mangiando quel che capitava, se capitava. Poi, a settembre, l’Ong Avsi gli ha proposto di creare un laboratorio a Cité Soleil. Lì Recule insegna e produce – insieme a sei apprendisti-collaboratori – 60 borse al mese. Coi guadagni, riescono a pagare gli stipendi - da 130 a 200 dollari, in base alla qualifica - a tutti i lavoratori. Un risultato considerevole in un Paese dove – secondo Oxfam – sette haitiani su dieci sono disoccupati.Mentre oltre la metà dei 5,6 miliardi promessi alla comunità internazionale è ancora impantanata in pastoie burocratiche, sono soprattutto Ong, associazioni laiche e religiose a farsi carico del dramma-Haiti. Che, a due anni dal terremoto, cerca disperatamente di rinascere. Per le strade ancora ferite di Port-au-Prince capita di imbattersi in storie come quella di Racule. C’è, ad esempio, Esther, la bimba che non doveva nascere e, invece, ce l’ha fatta. Ora è l’ultima arrivata, appena qualche giorno fa, nell’ospedale Delmas 33 di Medici senza frontiere (Msf). La mamma, Belgrade, aveva già perso tre bimbi durante il parto per mancanze di cure. Da quando è stata aperta, ad aprile, nella clinica sono venuti al mondo 4.600 neonati. «La situazione sanitaria del Paese, però, è molto difficile», dice ad
Avvenire Barbara Maccagno, responsabile medico dei progetti di Msf ad Haiti. Prima del sisma, c’era un medico ogni 5mila abitanti e la sanità era interamente a pagamento. «E ora, anche se non ci sono dati ufficiali, non molto cambiato, anche perché molti professionisti sono emigrati», aggiunge. Nel Paese è rimasto un solo ospedale generale, danneggiato dal terremoto e ricostruito solo in parte. Nei primi mesi dopo il sisma, il governo aveva dichiarato la gratuità dell’assistenza medica. Passata la prima emergenza, si è tornati al vecchio sistema con l’unica eccezione dei bimbi sotto i cinque anni e le donne incinta. Eppure il colera – che, dall’ottobre 2010 quando è esploso, ha ucciso 7mila haitiani – continua a flagellare la nazione, al ritmo di 200 nuovi casi alla settimana. Risultato: la gente si riversa nelle strutture gratuite delle Ong, come Msf. Che il 12 febbraio inaugura la quarta clinica, a Tabarre. Nelle 800 tendopoli ancora sparse per la città – denuncia ActionAid – vivono ancora 600mila sfollati. In condizioni forse più disperate di due anni fa, dato che il governo – come segnala la rete di Ong Agire – ha ridotto la distribuzione di acqua potabile e ha trasferito molti campi in periferie remote. Dove l’accesso ai servizi minimi è una lotta quotidiana. La metà del popolo delle tende sono bimbi, sottolinea Save the children. Come Marckensley, il più giovane residente di Gaston Margron, una selva di teli in cui sopravvivono in 4.800. Sua madre Darline ha 17 anni ed è disoccupata. Va avanti grazie all’aiuto di Save the children e la solidarietà dei vicini di tenda. Ma non perde la speranza. «Quando vede sorridere Marckensley, ho voglia di vivere», dice.