Il dopo guerra, nella Striscia di Gaza, ha svariati volti. A Gaza City, è già cominciato. A soli cinque giorni dal cessate il fuoco unilaterale israeliano, riprende frenetico il traffico automobilistico nel centro città, riaprono i negozi, i ristoranti, il mercato. Gli uffici pubblici danno i primi timidi segnali di riavvio delle attività, mentre alcune scuole, diventate centri di evacuazione per le famiglie sfollate durante il conflitto, si svuotano lentamente dei propri ospiti, indirizzati verso nuovi punti di ricovero. E gli insegnanti si preparano a fare ripartire al più presto le lezioni, forse già oggi. Gaza città volta pagina e cerca di andare avanti, affidando lo sgombero dei detriti a squadre di giovani uomini – per la maggior parte barbuti –, fin dalle prime ore del giorno impegnati a liberare le strade dalle macerie dei palazzi governativi sventrati dagli attacchi aerei israeliani. Ma è sufficiente lasciarsi alle spalle per pochi chilometri il principale centro urbano, in direzione nord, per scoprire un altro volto della tregua. Quello immobile e traumatizzato di Beit Lahia e Jabaliya, affollati agglomerati, già segnati da miseria e mancanza di prospettive prima dell’inizio della guerra. Costernati e abbandonati alla loro sorte, gli abitanti scavano con le mani in mezzo ai resti degli edifici, si arrampicano fra gli scheletri di quelle che un tempo erano palazzine di tre o quattro piani, bivaccano nelle automobili e nelle tende. «Non si è ancora visto nessuno – lamenta Adel Mizan, accampato insieme ai propri familiari sul bordo della strada, nel cuore di Izbet Abdo Rabo, a Jabaliya –. Dov’è il governo? Nessuno è venuto a portarci conforto. Fatah o Hamas sono la stessa cosa, non è cambiato niente, siamo sempre soli» . E racconta dell’avanzata terrestre di Tsahal, l’esercito di Tel Aviv, preceduta da un’avanguardia di alcuni soldati: « Non c’è stata resistenza di alcun tipo – assicura – abbiamo abbandonato le nostre case tutti insieme, sulla strada principale. Neanche il tempo di raccogliere i nostri documenti. Mia zia, che abitava poco più in là, ci ha messo troppo e non ce l’ha fatta» . Il suo corpo è stato ritrovato tre giorni dopo, sotto le macerie. Seif Abu Seif, invece, è stato catturato e tenuto prigioniero dai soldati israeliani: «Ma nessuno mi ha fatto del male – tiene a precisare –. Cercavano gente di Hamas, capisco un po’ di ebraico e riuscivo a seguire le loro discussioni. Eravamo in cinque, ci hanno spostato in un altro palazzo più lontano. Poi, finita l’offensiva in questa area, ci hanno lasciato andare» . Ma non tutte le storie sono a lieto fine, a Izbt Abdo Rabo. La famiglia che dà il nome al quartiere è stata duramente colpita: fra le vittime, tre bambine dai quattro ai dieci anni, uccise davanti agli occhi dei genitori, di fronte a casa. Senza spiegazione. Diverse le testimonianze che confermerebbero il fatto, su cui si dovrà però indagare. «Due soldati erano fuori dai tank, a terra, masticavano caramelle e patatine – racconta straziato Mohammed, padre delle piccole, trent’anni – Parlavano fra loro, poi un terzo è sceso dal tank e ha sparato» . La gente si affolla intorno a lui e lo sostiene. E scende il silenzio sui suoi singhiozzi.Intorno, lo scenario apocalittico di pali della luce e tronchi di albero sbalzati verso il cielo e rimasti incastrati nel groviglio dei fili dell’elettricità riflette l’intensità dell’attacco israeliano via terra, mirato a individuare i guerriglieri di Hamas nascosti nelle case dei civili. «In questa casa ce n’erano tre» , riferiscono gli abitanti del quartiere, ma nessuno si assume la responsabilità delle proprie dichiarazioni. E soprattutto, quando a qualcuno sfuggono dettagli sull’organizzazione logistica della resistenza, la precisazione è d’obbligo: « Non erano di qua. Non li conoscevamo. Venivano da un’altra zona della Striscia» . Nessuno ha voglia di parlare apertamente del nemico interno che gli abitanti di Gaza devono combattere ogni giorno, quel movimento di resistenza che sta portando alla rovina un milione e seicentomila persone. Si rischiano ripercussioni e vendette: « Ma Hamas sa che la gente non può sopportare più di questo – commenta un gazawi ( abitante di Gaza, ndr) di Jabaliya a bassa voce – non c’è consenso che tenga di fronte a tanta devastazione. Lo sanno e rispetteranno la tregua» . La prova del nove sarà la ricostruzione. Gli aiuti, per il momento, sono scarsi e mal distribuiti, forse anche strumento di speculazione. Il conforto, psicologico e materiale, è affidato al personale di Medici senza frontiere e a quello della Croce Rossa, dislocati nei punti più colpiti dalla guerra. Quanto ai centri di evacuazione, è l’assistenza di base ad essere fornita: «Veniamo da Beit Hanoun ( cittadina nel Nord- Est della Striscia, con una popolazione di oltre 35.000 persone) non c’erano altre strutture nei nostri paraggi – racconta Nouf Abu Deir, frastornato al termine della prima giornata trascorsa in un centro di accoglienza di Jabaliya –. Ho sette figli e sono disoccupato. Non abbiamo più niente, né passato né futuro» . I responsabili della struttura non gli permettono di lasciarsi andare allo sconforto e lo rassicurano. Potrà rimanere nella struttura quanto vuole.
A Rafah si scavano nuovi tunnel. Quello che Abu Mahmoud – nome di fantasia, come richiesto dall’intervistato – esibisce con orgoglio è un tunnel appena terminato, a ridosso del muro di confine con la parte egiziana di Rafah, frutto di un investimento complessivo di 140.000 dollari, per il momento non spesi invano: «Si è salvato per un miracolo – commenta Mahmoud, capo cantiere alla guida di una ventina di operai –. È lungo circa 500 metri, ma ce ne sono anche di più lunghi». Per completarlo è stato necessario un lavoro certosino e prolungato per mesi, con accelerazioni o soste forzate, turni continui di almeno sei operai per dieci-dodici ore e la distribuzione delle spese necessarie fra più famiglie. «Siamo una società, gli oneri sono ripartiti, così come i guadagni», spiega Mahmoud, assicurando che prima dei bombardamenti israeliani, all’inizio dell’operazione Piombo Fuso, lungo tutto il confine con l’Egitto ce n’erano almeno duemila. «Ora non so quanti ne siano rimasti, ma li stiamo già ricostruendo. Perché per noi non c’è scelta» (secondo Israele, ne è stato distrutto l’80%; per i palestinesi, il grosso è intatto). E racconta di come una delle figlie più piccole, di una decina di anni, sia stata curata in Egitto proprio grazie all’esistenza di un tunnel: «Aveva problemi a un rene – ricorda – qui sarebbe morta. L’abbiamo portata di là (e indica la parte occidentale di Rafah, oltre il muro) sotto terra». Mahmoud non vuol sentir parlare di armi contrabbandate, di Hamas, di politica. Ai suoi piedi, un’imboccatura profonda una ventina di metri e un tunnel largo circa novanta centimetri per settanta: Mahmoud guarda verso il fondo e lascia intendere che non ha più altro da dire. Più in là, altri cantieri procedono a passo spedito, senza sosta, protetti da semplici tende a base quadrata, piccole serre distribuite a caso su una superficie ormai traforata dai missili israeliani. Tutta la zona è in mano alla famiglia-clan dei Qishta. Chi non scava, partecipa comunque portando in taxi i visitatori su è giù per il confine. Il tunnel della "società" di Ahmed striscia sotto la barriera egiziano-palestinese per circa seicento metri. Lui e i suoi operai, in "pausa", bevono tè caldo seduti sulle rovine di un altro tunnel: «Ci è costato 150 dollari al metro – spiega il "mudir", il direttore del cantiere –. Lavoriamo a gruppi di sei persone, per dodici ore filate». Ahmed crede che non ci saranno altri attacchi aerei: «Più di così che cosa possono fare? Ammazzarci due volte? E poi per noi questa attività è vitale». Ed elenca i beni importati dall’Egitto: combustile, medicine, alimentari, materiale da costruzione. La parola armi sortisce lo stesso effetto anche su di lui: chiusura istantanea, nessun’altra dichiarazione.