mercoledì 24 luglio 2024
L'obiettivo previsto per il 2030 è più lontano che mai: l'insicurezza alimentare resta altissima ovunque, soprattutto in Africa. E i governi non cambiano il loro modello finanziario
La fame colpisce una persona su 5 in Africa

La fame colpisce una persona su 5 in Africa - Ansa

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Fame zero? Il secondo degli Obiettivi che il mondo si è proposto di raggiungere entro il 2030 resta ancora drammaticamente lontano. La quota di chi è condannato a vivere in costante insicurezza alimentare rimane di 733 milioni per il terzo anno consecutivo. Il 36 per cento in più di un decennio fa quando, appunto, le Nazioni Unite hanno adottato i 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile per affrontare quella che considerava - e considera tuttora - un’emergenza. Dopo i progressi dei primi anni, però, è arrivato lo stallo, con 152 milioni aggiuntivi di affamati rispetto al pre-Covid. In pratica, ora, una persona su undici non ha da mangiare. In Africa, però, dove il numero continua a crescere, è una su cinque. Livelli di malnutrizione paragonabili a quelli della crisi economica del 2008-2009. L’unica regione dove si sono registrati miglioramenti è l’America Latina – con la vistosa eccezione dell’area caraibica – mentre i dati asiatici sono rimasti stazionari. Nella regione compresa tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco, in 5,4 milioni sono usciti dalla fame. «Il Continente va nella direzione giusta per raggiungere la meta prefissata nel 2030», ha detto il direttore generale della Fao, Qu Dongyu. Il resto del pianeta, invece, è fuori strada. Di questo passo, nel 2030, i malnutriti cronici saranno 582 milioni: mezzo miliardo in più di quanto prefissato. Le cause dell’impossibilità di nutrirsi per troppi sono i conflitti – che dilagano mai come in questo momento –, le crisi economiche improvvise, la speculazione finanziaria sui prezzi degli alimenti e, soprattutto, nel corso del 2023, il riscaldamento globale.
Lo denuncia il consueto rapporto sullo “Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione” (Sofi) presentato ieri a Rio, nell’ambito della ministeriale del G20 e confezionato da cinque agenzie Onu: Fao, Ifad, Unicef, Pam e Oms. Agli oltre 700 milioni in condizioni estreme, vanno sommati i 2,3 miliardi di donne e uomini in situazione di insicurezza alimentare moderata e grave. Tre quarti dei più poveri vivono nelle aree rurali dei Paesi in via di sviluppo. Un paradosso crudele: sono proprio i piccoli produttori a sfamare il pianeta. Sull’agricoltura familiare – principale vittima dell’aumento repentino delle temperature mondiali –, dunque, occorre agire per sciogliere il controsenso. Lo studio Sofi non si limita a scattare la fotografia, a tinte scure, della realtà. Propone bensì un nuovo paradigma per impostare i finanziamenti in modo da renderli più equi ed efficaci contro la fame. Al momento, alla sicurezza alimentare va meno di un quarto degli aiuti destinati allo sviluppo. Una media di 76 miliardi di dollari l’anno tra il 2017 e il 2021, di cui solo il 34 per cento è stato investito per contrastare i fattori scatenanti. Una quantità evidentemente insufficiente. Per i Grandi, però, non si tratta unicamente di mettere mano al portafogli. «Spendere di più e soprattutto in maniera più intelligente», ha sintetizzato Alvaro Lario, presidente di Ifad. Attraverso una trasformazione dell’intero modello finanziario. Questo vuole dire costruire un quadro più coerente dei flussi di denaro, mobilitare nuovi fondi e spenderli meglio, garantendo un ruolo decisionale cruciale ai protagonisti nazionali e locali. «È necessario garantire finanziamenti meno onerosi ai Paesi che hanno più necessità», ha aggiunto Lario.

Bimbi affamati in India

Bimbi affamati in India - Ansa



Invece, delle 119 nazioni a medio e basso reddito analizzati, il 63 per cento rivela forti difficoltà nell’accesso ai fondi. Troppo rischioso investirvi date le precarie condizioni. Gli strumenti finanziari per bypassare gli ostacoli, però, ci sono: collocamenti privati di obbligazioni sostenibili, schemi di finanziamento misto e accordi di condivisione del rischio per attrarre fondi privati. Adottarli è una scelta politica. Da qui la decisione di divulgare il rapporto di fronte alle venti principali economie internazionali, le uniche con la forza sufficiente per promuovere il cambiamento. In un luogo oltretutto strategico: il Brasile che, con gli ambiziosi programmi di inizio anni Duemila, è diventato un riferimento nella lotta alla fame, come ha ricordato la direttrice esecutiva del Pam, Cindy McCain. I costi sono indubbiamente alti: si parla di miliardi di dollari. «Il costo dell’inazione sarà, però, di gran lunga maggiore – si legge nel rapporto Fao –. Il riutilizzo dei finanziamenti esistenti per l’alimentazione e l’agricoltura potrebbe dare un contributo significativo». Una delle chiavi è impiegarli in modo massiccio per dare ai contadini dei Paesi poveri i mezzi per difendersi dal surriscaldamento generale. Fattore a cui sono tragicamente vulnerabili. «Realizzare sistemi alimentari resistenti al clima è ora una questione di vita o di morte – sottolinea Olivier De Schutter, special rapporteur Onu sulla povertà estrema e i diritti umani e co-chair dell’International panel of experts o sustainable food systems -. Abbiamo una disperata necessità di una nuova ricetta per affrontare la fame, basata su una produzione agro-ecologica del cibo diversificata e su mercati alimentari localizzati invece che su catene alimentari industriali globali. Nonché su programmi di protezione sociale che garantiscono il diritto al cibo per i più poveri del mondo».
Il punto di partenza, secondo il capo economista della Fao, Máximo Torero, è prevedere piani di trasferimento rapido di denaro dove si verifica l’emergenza. L’intensificarsi delle catastrofi ambientali e dei fenomeni estremi, produce uno scenario cangiante. «Anche gli aiuti devo essere in grado di adattarsi al contesto – sottolinea Torero –. Con il cambiamento climatico, la velocità di azione diventa fondamentale». Alcune esperienze citate nello studio sono eloquenti. L’introduzione in Zambia di un sistema di “assicurazioni climatiche” per i contadini più vulnerabili ha consentito un forte miglioramento della produzione alimentare e della riduzione della malnutrizione. Mentre in Indonesia, un programma di incentivo focalizzato con le donne, ha fatto crescere la pesca sostenibile del 78 per cento. «Non è un’utopia – ha concluso McCain –. Un futuro libero dalla fame è possibile. Si tratta di volerlo».


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