mercoledì 24 luglio 2024
I democratici si compattano intorno a Kamala con un solo obiettivo: battere Donald. La vicepresidente passa all’attacco E guadagna due punti percentuali sul rivale
Kamala Harris

Kamala Harris - Fotogramma

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A velocità mozzafiato i democratici sono saltati sul carro della presunta vincitrice di una nomination che non è stata ufficialmente decisa e di primarie alle quali non ha partecipato. Del resto, da quando Joe Biden si è fatto da parte, la parola d’ordine del partito è colmare “il divario dell’entusiasmo” che separa i repubblicani, disciplinatissimi e schierati senza riserve dietro Donald Trump (un po’ meno dietro il suo vice, colpevole di aver sposato un’indiana), e i democratici, abituati da almeno trent’anni a un concetto di unità relativo, condizionato dalla sotto-tribù alla quale appartengono. Per ora, però, quasi tutte le anime della sinistra Usa hanno fatto quadrato attorno a Kamala Harris in nome dell’unica priorità comune: battere Trump.

Anche per questo la vicepresidente appare più al momento come una bandiera (per forza bidimensionale) che come un personaggio politico definito dalle sue idee. E non può non sorgere il dubbio che il dispiego di compattezza sia destinato a incrinarsi non appena Kamala comincerà a rispondere alle domande dei giornalisti, del rivale durante il prossimo dibattito (il 10 settembre) e degli elettori. Magari già prima della Convention democratica del 19 agosto in poi a Chicago, che alcuni democratici, a partire da Barack Obama, vorrebbero vedere “aperta” a un confronto fra vari candidati più che un’incoronazione della prescelta dall’élite, come accusa l’influente Black Lives Matter, indicando una prima possibile spaccatura dello schieramento progressista.
Ma per ora la maggior parte delle tribù restano serrate, spalla a spalla. A stendere il tappeto rosso a Harris sono stati i grandi donatori, Hollywood e il mondo della canzone, che aspetta però con ansia un cenno di Taylor Swift, che non si è ancora sbilanciata pur avendo nel 2020 appoggiato il ticket democratico.

Gli ultimi in ordine di tempo a unirsi al coro sono stati capigruppo democratici al Congresso, Chuck Schumer e Hakeem Jeffries, che hanno annunciato il loro endorsement, il primo quasi come una scelta obbligata: «La vasta maggioranza dei miei senatori l’hanno velocemente e entusiasticamente sostenuta ed ora che il processo si è sviluppato siamo qui per dare il nostro sostegno alla vice presidente», ha detto Schumer. A gonfiare le vele di Harris (che pare voglia essere chiamata solo Kamala) arriva anche il primo sondaggio Reuters/Ipsos dopo il ritiro di Biden, che la mostra davanti a Trump 44% a 42%.

Per ora la vice-presidente si tiene stretta al copione e cerca di proiettare un’immagine determinata ma umile. Nella sua prima uscita al quartier generale della campagna di Biden a Wilmington ha ripetuto che intende «conquistarsi la nomination e vincere», mentre i media confermavano che aveva ricevuto il sostegno (per ora solo a voce) di oltre duemila delegati del partito, più dei 1.976 necessari per diventare la candidata dell’asinello. Harris ha anche celebrato l’eredità di Biden come un «leader visionario» durante una telefonata che il presidente ha fatto in viva voce al suo ex staff elettorale invitandolo a sostenerla.

Un’altra sfida che Harris deve affrontare è proprio quella di presentarsi come candidata della continuità senza appiattirsi sulle posizioni del suo capo, e senza limitare la sua identità al fatto di essere donna o di colore. Anche se proprio queste sue due caratteristiche rappresentano il più grande vantaggio che ha sul rivale, come dimostrano sempre i sondaggi che la vedono dominare fra gli afroamericani (del 76% contro il 21%) e fra le elettrici e gli under29 (62% a 37%).

Il primo passo per smarcarsi da Biden (ma non troppo) è attaccare Trump con l’autorità che le viene dall’essere una ex procuratrice e ministro della Giustizia in California. «So che tipo di persona è perché ho messo sotto inchiesta truffatori e predatori sessuali», ha detto sempre da Wilmington. Non ha ricordato però che più di dieci anni fa lo stesso tycoon donò 6mila dollari alla sua campagna come ministro, probabilmente perché apprezzava la linea dura contro il crimine che aveva adottato, irritando all’epoca i critici progressisti. Trump per il momento è rimasto per lo più in silenzio sulla nuova avversaria, probabilmente prendendone le misure prima di sferrare nuovi attacchi. Ieri si è limitato a prendersela ancora con il Secret Service per non averlo protetto adeguatamente il 13 luglio (anche se aveva ringraziato gli agenti all’indomani dell’attentato), mentre la loro direttrice, Kimberly Cheatle, si dimetteva.
Trump ieri ha anche confermato che venerdì riceverà Benjamin Netanyahu a Mar-a-lago, dopo (e non prima, come aveva annunciato inizialmente) la tappa del primo ministro a Washington. La visita del premier israeliano alla Casa Bianca domani (dopo il discorso al Congresso di oggi) sarà il primo appuntamento di peso di Biden dopo il suo abbandono della gara per la rielezione e il Covid, e sarà osservato con grande attenzione.

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