Elezioni in Israele - Ansa
Come previsto dai sondaggi, nel voto di oggi il Likud di Benjamin Netanyahu si è confermato la prima forza politica in Israele. Stamani, con l'89% dei voti scrutinati, il Likud avrebbe 30 seggi, distaccando abbondantemente tutte le altre sigle. Con i due partiti ultraortodossi Shaas (9 seggi) e Uniti per la Torah (7) e il partito del Sionismo religioso (6 seggi) arriva a 52. Se Naftali Bennett, con i 7 seggi della sua Yamina, aderisce al blocco, Netanyahu arriva a 59 seggi. Ma per formare un governo ne servono 61 sui 120 della Knesset. Al secondo posto, si sono attestati i centristi di Yair Lapid: il suo Yesh Atid ha guadagnato 17 seggi. A sinistra, hanno ripreso fiato i laburisti (7 seggi) e Meretz (5). Il blocco anti-Netanyahu arriverebbe a 61 seggi. Quanto al voto degli arabi, la vecchia Lista Unita ottiene 6 seggi e il nuovo partito scissionista Raam riuscirebbe a entrare alla Knesset con 5 seggi: il suo leader Mansour Abbas si è detto aperto a parlare con tutti. Potrebbe rivelarsi l'ago della bilancia. Manca tuttavia da scrutinare l'11% delle schede, tra cui anche tutto il voto dell'esercito, che potrebbe cambiare di nuovo le carte in campo. I risultati definitivi arriveranno venerdì.
«Stavolta non voto, tanto la nostra voce non è mai contata nulla». Wael prepara un caffè turco nel bar a Jaffa, a sud di Tel Aviv. Di fronte c’è una delle tante scuole adibite a seggio, ma c’è più gente che va in direzione opposta, verso la spiaggia. E in fondo a lui non dispiace. Ieri in Israele faceva più caldo del solito, per essere marzo: con 31 gradi già alle 10.00 del mattino, molti, approfittando della giornata elettorale, sono andati al mare o fare shopping.
«Probabilmente anche questo ha contribuito ad abbassare di molto l’affluenza – alle 20 era del 60,9%, con un 4,7% in calo rispetto al precedente voto: mai così già dal 2009 – ma deve avere inciso anche l’abbuffata elettorale di questi ultimi mesi. Molti gli indecisi, che però sono sempre decisivi in Israele per raggiungere i 61 su 120 seggi necessari alla maggioranza. Proprio in questa grande fetta di incerti gravita l’elettorato arabo, che rappresenta il 17% dei 6,6 milioni di votanti e che mai come quest’anno, in uno scenario tanto frammentato, è stato determinante.
Il premier Benjamin Netanyahu lo ha capito subito e, da subito, ha spostato la sua campagna elettorale sui loro villaggi, nel nord e nel sud del Paese, promettendo risorse e denaro pubblico ai cittadini e ministeri a chi, tra i candidati delle varie liste, avesse appoggiato il suo blocco governativo.
Tra questi c’è Mansour Abbas. I cartelloni del suo partito tappezzano le zone a maggioranza araba. Dopo una scissione interna alla “Lista araba condivisa”, ha fondato il suo neo-partito “Raam”, acronimo ebraico per “Lista araba unita”. In molti hanno deciso di dargli una chance. «Perché? Perché siamo stanchi del vecchio partito, perennemente all’opposizione e quindi irrilevante», dicono accavallando le voci uno sull’altro tre ragazzi al tavolino. Non frequentano gli stessi locali degli israeliani, ma la politica è un’altra faccenda. «Con qualcuno ci si deve alleare, no? Tanto vale farlo con chi ha più possibilità di vincere». Anche se questo qualcuno è Netanyahu? «L’importante è avere voce in capitolo».
Non tutti sono d’accordo. «Preferisco votare Meretz – commenta Shadi, appena entrato nel bar carico di sacchetti della spesa e seguito da un nugolo di bambini, dopo aver votato –: è l’unico partito che si è sempre impegnato a portare avanti il processo di pace con i palestinesi. Io di Bibi non mi fido, ci sta usando e basta». La tv, appesa in alto, passa la notizia di un razzo lanciato dalla Striscia di Gaza e caduto vicino a Beersheba, in una zona disabitata. In giornata era stato lì Netanyahu per un comizio. Qualcuno sorride malizioso. Qualcuno indica lo schermo con un cenno di disapprovazione. Ma a tutti è chiaro che quello è il problema. Chiunque sarà il vincitore.