Anche l’elementare assistenza medica è impossibile in molte aree del Congo - Reuters
«Civili uccisi, case bruciate, e migliaia di sfollati scappati dalle loro abitazioni». L’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere (Msf ) è rimasta colpita da quello che sta succedendo nelle province di Mai-Ndombe e Kwilu, nel sudovest della Repubblica democratica del Congo. Un altro conflitto dimenticato nel cuore dell’Africa che, da giugno, ha causato la morte di almeno 200 persone e decine di migliaia di profughi. « Nonostante la mia lunga esperienza con Msf in contesti difficili, non ci si abitua mai a questo livello di violenza – ammette sconcertata Alessandra Giudiceandrea, capomissione di Msf nel Paese – . In quest’area è esploso l'incitamento all'odio e il vicino di ieri è diventato un nemico».
Da mesi, diverse località in Mai-Ndombe e Kwilu sono teatro di gravi violenze intercomunitarie. Tra le ragioni principali di questo conflitto che ha iniziato a consumarsi a un centinaio di chilometri dalla capitale congolese, Kinshasa, ci sono dispute legate ai vasti terreni dell’area. Gli scontri armati in corso stanno coinvolgendo soprattutto la popolazione dei Teke contro quella dei Yaka. Mentre i primi sono arrivati decenni fa sugli altopiani al confine tra la Repubblica democratica e il Congo Brazaville, gli ultimi sono giunti dopo e hanno iniziato a coltivare sulle terre dei Teke pagando delle tasse. Recentemente, però, i Teke hanno accusato i Yaka di non aver più pagato e le violenze sono scoppiate in numerosi villaggi e cittadine. «Verso fine agosto, a pochi giorni dall’arrivo di Msf a Kwamouth, dove sono iniziati gli scontri, abbiamo visto un ciclo di vendette caratterizzato da attacchi e rappresaglie – continua Giudiceandrea –. Siamo stati testimoni di interi villaggi rasi al suolo e corpi mutilati, non solo di uomini, ma anche donne e bambini».
La violenza si è estesa oltre Kwamouth, raggiungendo altre località come Bibonga, Engweme e Bisiala. Negli ultimi giorni sono sempre maggiori le tensioni anche nell’area a nord di Kinshasa. Msf, come altre organizzazioni umanitarie locali e internazionali, sta sostenendo le strutture sanitarie sul posto e fornendo cure mediche. « A Kinshasa, in barca o in auto, sono stati trasferiti più di 20 pazienti in gravi condizioni – spiega la capo missione di Msf –. Alcuni avevano ferite infette da settimane perché non avevano potuto consultare un medico».
Lo scorso settembre, il presidente congolese, Felix Tshisekedi, aveva inviato dei suoi emissari per capire la natura di queste violenze che, nonostante le tensioni comunitarie a cui il Paese è abituato da decenni, sembrano eccessive e molto simili a ciò che sta avvenendo nel nord-est del territorio congolese. Sebbene i leader di entrambe le comunità avessero affermato di voler lavorare per una riconciliazione, gli scontri sono continuati. “Abbiamo arrestato diversi funzionari dell’esercito e della politica locale, ma anche guerriglieri che non parlano alcun dialetto congolese – aveva affermato Tshisekedi alla stampa –. Ci sono quindi delle forze oscure intente a destabilizzare il Paese perché non vogliono le prossime elezioni congolesi previste per il 2023 e sembrano pronte a far cadere il mio governo». Il riferimento era anche alle regioni nordorientali del Kivu e Ituri, un centinaio di gruppi armati, alcuni apparentemente sostenuti dal vicino Ruanda, continuano a seminare terrore tra la popolazione. Si tratta di un periodo molto complicato per il Congo che sta cercando di risollevarsi dopo quasi trent’anni di conflitti e operazioni militari fallite. Una situazione assai delicata che gruppi ribelli di matrice jihadista come le Forze alleate democratiche (Adf ) stanno sfruttando per continuare a raccogliere i profitti di una delle aree più ricche di risorse naturali del continente africano. Una guerra che vede sempre più il coinvolgimento anche di attori regionali: ieri a Goma, nel Nord Kivu, sono arrivati 900 soldati inviati «in aiuto» dal Kenya per combattere i ribelli del gruppo M23.
«Dobbiamo affrontare l'instabilità e i conflitti che possono portare al terrorismo in primo luogo, così come le condizioni sfruttate dai terroristi nel perseguimento dei loro obiettivi – ha detto il presidente del Ghana, Nana Akufo-Addo, il cui Paese ha assunto la presidenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu per il mese di novembre –. È quindi importante ripristinare un’autorità statale efficace e promuovere una governance inclusiva in tutto il Continente».