La religione non c’entra dicono gli osservatori più attenti, come la questione etnica. Ma sono strumenti per scatenate la violenza, ammantarla di una motivazione diversa da quella che ha: una pura e semplice lotta di potere. La storia nel mondo, e dell’Africa in particolare, è piena di esempi. E il conflitto nella Repubblica Centrafricana è uno di questi. Che riesplode ciclicamente, un fenomeno “carsico” che riemerge con il suo carico di sangue e fame, di oltre 600mila sfollati interni e di più di 2,5 milioni di persone che sopravvivono solo grazie agli aiuti umanitari. Di sei anni di attacchi, bombe,combattimenti tra le milizie pseudo-islamiche della ormai ex coalizione Selekà e i guerriglieri psudo-cristiani delle anti-balaka. Di un contingente delle Nazioni Unite, la missione Minusca, che ha il compito di fare da arbitro, ma che spesso si limita a restare nei suoi alloggiamenti della capitale Bangui e a “contare” poi i morti.
Travolta, come è stata, anche da scandali di pedofilia. Una speranza era nata nel novembre del 2015 dalla visita di papa Francesco. La violenza aveva segnato il passo, lasciando il posto a dialoghi reali, disarmo e tentativi di riconciliazione. Qualche mese più tardi le violenze sono riprese. Chiese, moschee, popolazioni di villaggi remoti passate per le armi. Con un potere centrale incapace, se non di difendere (forse) se stesso. Questa è la situazione attuale del Centrafrica, simile a quella del 2012 quando si è innescata la spirale di sangue. Che anche il primo maggio si è mossa di un giro con le granate in chiesa - probabilmente scagliate con ritorsione a un arresto da parte degli islamici del Pk5, che prende il nome dall'omonimo quartiere della capitale - e la risposta di morte nella moschea.
Un altro conflitto dimenticato, di una periferia dimenticata, che è facile etichettare come interreligioso. Quasi “tranquillizzante”, di certo falso.