Nelle orecchie dei funzionari di Pechino risuona ancora un ronzio molesto. Quel ben più che fastidioso precedente risponde al nome di "diga di Myitsone", faraonico progetto di (deturpazione) ambientale da 3,6 miliardi di dollari che la Cina intendeva impiantare in suolo birmano, congelato nel 2011 dopo una vera e propria rivolta ambientale. E che ora il Dragone potrebbe abbandonare. Definitivamente. Quella del Dragone non sarà però una cambiale in bianco, dopo che proprio la controversia sulla diga, da ergere sul fiume Irrawaddy, ha segnato il punto più basso nei rapporti con il Mynamar. La Cina insomma ci riprova, questa volta con la costruzione di un oleodotto, parte dell’operazione “Belt and Road”, la gigantesca rete di strade, autostrade, ferrovie, rotte e porti che entro il 2049 ricostruiranno la via della Seta. Un rete tentacolare a cui si è legato il presidente Xi Jinping, sorta di riedizione della grandeur cinese con una finalità precisa: ricostruire l’"impero", approfittando (anche) dei passi indietro e dei vuoti lasciati dalla nuova politica americana. Ma – la denuncia è della Reuters – il modus operandi del gigante asiatico non sembra aver fatto tesoro della lezione offerta diga di Myitsone: scarse o nulle attenzioni alle ricadute ambientali, scarse o nulle attenzioni all’impatto sulla popolazione locale – almeno 20mila persone potrebbe essere "deportate".
Posti di lavoro? Per i cinesi
Il Dragone mette in campo un progetto da 10 miliardi di dollari che creerebbe 100mila nuovi posti di lavoro. L’obiettivo? La creazione di un oleodotto che offra un percorso “alternativo” al petrolio che arriva dal Medio Oriente. Perché il Dragone deve saziare quella fame di energia che alimenta, e allo stesso tempo rende vulnerabile, la sua crescita economica. Nel 2016, la dipendenza dal petrolio straniero ha raggiunto quota 64,4 per cento, il 3 per cento in più rispetto all’anno precedente, con la produzione nazionale scesa a 200 milioni di tonnellate. Dipendenza destinata a raggiungere quota 70 per cento entro il 2020. Non solo. Quasi l'80 per cento delle importazioni cinesi deve passare attraverso il (congestionato) Stretto di Malacca. Un suo eventuale blocco metterebbe in ginocchio l’intera Paese.
La Zona Economica Speciale Kyauk Pyu, su cui punta Pechino, coprirà più di 17 chilometri quadrati. Include un porto da 7,3 miliardi di dollari e un parco industriale da 2,3 miliardi di dollari. Gli investitori cinesi, scrive ancora la Reuters, si dicono pronti a spendere un altro milione di dollari durante i primi cinque anni per alimentare lo sviluppo, e 500.000 dollari per migliorare gli standard di vita locali. Tutto bene allora? Niente affatto. Perché gli abitanti del villaggio di Kyauk Pyu, temono che in realtà Pechino finisca per "trapiantare" lavoratori cinesi, e che alla popolazione resti poco o nulla. Briciole. "Non credo che riuscirò a trovare un lavoro", ha raccontato Nyein Aye, che ora fa il pescatore. La sua domanda per essere assunto è stata respinta 12 volte.
Davide e Golia
I legami tra Cina e Myanmar sono solidi. I due Paesi condividono un confine lungo 2185 chilometri. La tentazione del gigante cinese è quella di fagocitare il più piccolo Myanmar. Fa gola al Dragone la sua posizione geograficamente strategica, che fornisce l'accesso all'Oceano Indiano. Pechino è oggi il più grande investitore straniero in Myanmar, con oltre 15 miliardi di dollari di investimenti diretti in 126 progetti. Ma la posizione cinese arretra: la quota è scesa da oltre l'80 per cento, nel periodo della giunta militare, al 50 per cento di oggi. Pechino ora sente il bisogno di rilanciare.