Quando Li Nanxiu si mette in cammino, la luce invernale non riesce a bucare la nebbia che avvolge il suo villaggio. Con il nipotino in braccio, la donna percorre due chilometri, fino al villaggio di Wangzhou, nella provincia centrale dello Hunan. Qui sale su un primo autobus. Arrivata a Jiangdong, ne prende un altro. Destinazione: Baiguo, città che ospita l’Ospedale del Popolo, il più grande (e sovraffollato) della contea. Al nipotino – è il 4 dicembre – viene somministrato il secondo richiamo del vaccino contro l’epatite B. Li non lo sa ancora, ma quello è solo l’inizio del calvario che inghiottirà la sua famiglia. Dopo il rientro a casa, il bambino si sente male. «Durante il tragitto – racconta la donna alla rivista cinese
Caixin – era stranamente calmo: non si muoveva, non piangeva. A un certo punto ha anche smesso di alimentarsi». La mattina dopo, la donna si precipita nuovamente in ospedale. I medici la rassicurano: è solo una reazione “normale” al vaccino. Due giorni dopo, Li Nanxiu si ripresenta ancora in ospedale. È il 6 dicembre. Alle 20 suo nipote muore.Non si tratta di un caso isolato. Come ha dovuto ammettere il
China Daily, almeno undici neonati sono morti, nel giro di poco più di un mese, dopo aver ricevuto il vaccino contro l’epatite B. Troppi per poter «silenziare» la vicenda. Il quotidiano ufficiale del Partito – che riferisce comunque l’apertura di un’inchiesta – cita Bernhard Schwartlander, rappresentante nel colosso asiatico dell’Oms, per il quale «è difficile stabilire un nesso di causalità tra i vaccini e queste morti». D’altronde, insiste il quotidiano cinese, lo scorso anno sono nati in Cina 16 milioni di bambini e il 90 per cento è stato vaccinato, grazie al programma (gratuito) nazionale di immunizzazione, partito nel 2005. Il primo vaccino viene iniettato entro 24 ore dalla nascita, il secondo un mese dopo, il richiamo finale sei mesi più tardi. Eppure il
New York Times un presunto nesso di cause ed effetto tra l’inoculazione e quelle morti lo ha individuato. Sei dei bambini morti sono stati collegati ai vaccini prodotti dalla Shenzhen Kangtai, il più grande produttore di siero anti epatite B del Paese, con una quota di mercato pari al 60 per cento. Risultato: molte madri – scrive ancora
Caixin – ora “fuggono” dal vaccino. Troppo doloroso, in Cina, il ricordo di uno dei tanti casi legati agli scarsi controlli in campo sanitario, per non evocare lo spettro di un nuovo scandalo. Basti pensare al latte alla melamina che nel 2008 ha ucciso sei bambini, e ne ha infettati altri 300mila.
Caixin collega le morti a un altro deficit cinese. La Cina ha ospedali estremamente “trafficati”. Secondo alcune stime, un medico ospedaliero visita 70-80 pazienti al giorno, dedicando ad ognuno di loro non più di 5-6 minuti. «Io non posso permettermi di ammalarmi», è la frase sempre più pronunciate dai cinesi. Con un’altra ricaduta: quella della conflittualità tra medici da un lato, pazienti e familiari. Come ha scritto
Agi China24, in molti ospedali si organizzano corsi di autodifesa per medici e infermieri. Lo scorso 25 ottobre in un ospedale di Wenling, provincia del Zhejiang, un paziente armato di coltello ha ucciso un medico e ne ha feriti altri due Quella della mortalità infantile resta un vulnus per le ambizioni imperiali cinese. Che enormi passi avanti siano stati fatti, è innegabile. Tra il 1996 e il 2008, il tasso di mortalità infantile è diminuito del 62 per cento, grazie soprattutto alla ospedalizzazione delle nascite. Nel 1988 «meno della metà delle donne in Cina partoriva in ospedale, venti anni dopo le nascite in ospedale sono diventate quasi la norma», ha registrato la rivista britannica
The Lancet. Ma il divario rispetto ai “concorrenti” resta enorme. Il tasso in Cina è di 15 morti ogni mille nati. In Giappone è di 2,4. Negli Stati Uniti è di 5.