martedì 15 gennaio 2019
Lo stop a Westminster all’accordo per la Brexit innescherebbe una gigantesca reazione a catena. Theresa May è già stata battuta sugli emendamenti proposti per evitarla
Manifestanti anti Brexit davanti al Parlamento britannico (Ansa)

Manifestanti anti Brexit davanti al Parlamento britannico (Ansa)

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Brexit rischia l’impasse. A poche ore dal voto definitivo del Parlamento britannico (il risultato è atteso attorno alle 21.15 italiane) sull’accordo negoziato dalla premier Theresa May con Bruxelles si intensificano le voci che danno per probabile non solo il rinvio della data dell’effettiva separazione tra la Gran Bretagna e l’Ue ma, addirittura, un annullamento dell’intera procedura.

GLI SCENARI:

1) Il Parlamento approva. Londra esce dall'Ue con le modalità previste dall'intesa approvata a Bruxelles il 25 novembre 2018. La transizione dura 2 anni.

2) Il Parlamento respinge. Londra esce dall'Ue senza accordo. Azzerata la libera circolazione di merci e persone.

3) Il Parlamento "congela", chiedendo all'Ue l'estensione dei termini negoziali previsti dall'Articolo 50 e quindi un rinvio della Brexit. Serve l'approvazione dei 27 Paesi dell'Ue.

Difficile capire se si tratta di opzioni realmente percorribili o di minacce “tattiche” fatte circolare per trascinare il Parlamento a votare il “piano May”. Lo spauracchio del “no deal” continua ancora a terrorizzare l’opinione pubblica ma l’esecutivo, ripetutamente battuto in Parlamento la scorsa settimana proprio su due emendamenti proposti per scongiurare la catastrofe di un drastico divorzio, sembra che su questo abbia allentato la presa. Certo è che oggi l’accordo del governo rischia di essere travolto, dice la Bbc, da 433 no e 205 sì e che, stando al controverso emendamento del conservatore Dominic Grieve approvato mercoledì, l’esecutivo è tenuto a presentare all’aula di Westminster un piano alternativo per la Brexit entro tre giorni lavorativi.

Downing Street ha fatto sapere che in caso di bocciatura al primo round concederà, in vista di una seconda votazione, un solo emendamento al testo e appena 90 minuti di dibattito. Difficile sperare che ciò possa bastare a sciogliere i nodi visto che il no all’accordo della May si fonda su questioni sostanziali, come il discusso “backstop” tra l’Irlanda e l’Irlanda del nord, e non marginali. Il sospetto, nei fatti, è che la Gran Bretagna non abbia alcun piano alternativo se non quello di prendere tempo.

Citando alcuni anonimi ministri come fonte, il quotidiano Evening Standard, venerdì scorso, ha sottolineato che ormai potrebbero non esserci più neppure i tempi per approvare in Parlamento le sei leggi fondamentali di attuazione del divorzio, inclusa quella sull’immigrazione. La sintesi dello stallo l’ha fatta, senza mezzi termini, il ministro degli Esteri Jeremy Hunt che, nel corso di un’intervista radiofonica, ha parlato di «una paralisi del processo che porterebbe di fatto a una no Brexit». «Se non completassimo la Brexit – ha aggiunto – si creerebbe una sostanziale interruzione del rapporto di fiducia tra il popolo e i politici. Credo che sarebbe qualcosa che saremmo costretti a rimpiangere per molte, molte generazioni. Dopo aver deciso di lasciare l’Ue, se dovessimo ritrovarci incapaci di farlo per un motivo qualsiasi sarebbe pessimo anche per la reputazione della Gran Bretagna all’estero».

Nonostante la premier si sia affrettata a precisare che il governo non intende né ritardare né annullare la Brexit chiedendo l’estensione o, addirittura, la revoca dell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona (quello che definisce la procedura di uscita volontaria dall’Ue), le dichiarazioni di Hunt hanno causato un’immediata impennata della sterlina tornata ai valori massimi sul dollaro da novembre.

Quella del rinvio è un’opzione che Londra dovrebbe comunque formalmente chiedere a Bruxelles. Di estensione dei termini negoziali previsti dall’Articolo 50 si è parlato solo in sede di colloqui tecnici e qualcuno azzarda l’ipotesi che l’Ue potrebbe concederla solo in presenza di una definita “road map”.

L’attenzione è al momento concentrata sull’esito della votazione a Westminster di martedì 15 gennaio. Pur di veder passare l’accordo così faticosamente raggiunto in quasi due anni di negoziazioni, May non smette di sperare che una maggioranza trasversale tra Tory e Labour possa consegnare alla Gran Bretagna la Brexit chiesta con il referendum del 2016. Sembra che la premier abbia aperto il dialogo con i dirigenti del partito laburista e con i vertici dei principali sindacati prospettando, in cambio dell’appoggio, concessioni sui diritti dei lavoratori e garanzie sulla protezione dell’ambiente.

Visto che nessuna delle opzioni possibili può al momento essere esclusa il governo continua a lavorare anche al piano per la gestione delle criticità che potrebbero derivare dal “no deal”. La scorsa settimana il ministero dei Trasporti ha organizzato al porto di Dover, sul Canale della Manica, un’esercitazione con circa 90 camion per testare la tenuta del sistema autostradale nel caso in cui i controlli alle frontiere, frutto dell’imposizione dei dazi, causassero code e rallentamenti. Mobilitazioni febbrili anche sul fronte della sicurezza, specialmente al confine nordirlandese dove sono attesi almeno un migliaio di poliziotti inglesi addestrati alla gestione di eventuali rivolte.

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