Le mattonelle lottano con gli sterpi. Invano. Le erbacce hanno invaso gli spazi lasciati dalle lastre divelte. E con loro sono arrivati topi, blatte, insetti. Attraversare il cavalcavia è una corsa a ostacoli. Con tanto di salto nei punti dove la pavimentazione è sprofondata. Certo, non tutti ce la fanno. Rosinha – il nome è di fantasia –, ormai cieca, è caduta col suo bastone dopo pochi metri alla fine dell’anno scorso. Non s’è fatta troppo male. E, così, settimana dopo settimana, ha riprovato: 11 volte. Tante quanti sono i reclami presentati dall’anziana alle autorità. Nessuno è intervenuto. E Rosinha ha dovuto rinunciare a visitare il figlio, recluso nel carcere di Pinheiros. Il ponte – che scavalca l’autostrada – è l’unica via per raggiungere il penitenziario, costruito letteralmente in mezzo al nulla. Villa Leopoldina, come si chiama questo quartiere alla periferia occidentale di San Paolo, è un punto di passaggio per le merci verso il porto di Santos. La metro sbuca sull’enorme parcheggio dei camion.
Scarico e carico sono continui. Per alleviare la sete dei lavoratori, c’è a malapena qualche chiosco. Nient’altro. A interrompere la monotonia grigio smog, sono le coperte colorate dei parenti dei carcerati: chi viene dalle città circostanti deve accamparsi fuori dal cancello di Pinheiros il giorno precedente a quello di visita – il sabato – per non perdere il turno. «A meno che il Comando non ti tenga il posto», spiega Pedro, volontario della Pastorale carceraria. Non si riferisce al comando di polizia. Bensì al Primeiro comando capital (Pcc), l’organizzazione criminale che dà una parvenza d’ordine alla “giungla Pinheiros”.
La casa circondariale è arrivata a quota 7mila reclusi – tutti in attesa di giudizio – per poco più di 2.100 posti. Oltre il triplo della propria capacità. Il sovraffollamento è valso alla struttura il titolo di “nuova Carandiru”, dal nome del penitenziario teatro del peggior massacro della storia carceraria brasiliana 25 anni fa: 111 detenuti ammazzati dalla polizia nel tentativo di sedare una rivolta. La strage è stata all’origine, l’anno successivo, della nascita del Pcc. In Brasile, le principali bande delinquenziali – non solo il Pcc, ma prima il Comando Vermelho di Rio de Janeiro – si sono formate dietro le sbarre, come gruppi di “autodifesa” e autorganizzazione dei reclusi. Solo poi hanno fatto il “salto” verso l’esterno. Sono, dunque, un “effetto collaterale” del degrado, della violenza e dell’abbandono in cui lo Stato lascia i carcerati.
Al momento, oltre 622mila, un terzo concentrata nello Stato di San Paolo. La quarta maggiore popolazione penitenziaria mondiale, dopo Usa, Cina e Russia. La gran parte dei detenuti è giovane e povera, il 60 per cento è nero, il 75 per cento ha appena la licenza elementare. Tutti vengono ammassati senza distinzione tra definitivi e in attesa di sentenza, età, orientamento sessuale, tipo di delitto commesso. «Gli agenti penitenziari sono pochi o non sufficientemente qualificati. Molti carceri finiscono per essere “gestiti” dagli stessi detenuti», sottolinea Maria Laura Canineu, di Human Right Watch. In sintesi – aggiunge – le «prigioni brasiliane sono un disastro». Un disastro.
La conferma alle sue parole avviene appena varcato il cancello di ferro del Blocco uno. Un quadrato di cemento diviso in quattro spicchi. Nel primo, chiamato raggio, sono rinchiuse 500 persone. Il quintuplo rispetto alla capienza massima. In ognuna delle 16 celle, ci sono 30 persone. I letti – minuscoli – sono otto. «Gli altri si accovacciano per terra, i più fortunati riescono ad appendere un’amaca», spiega Pedro. Data la carenza di spazio, i reclusi devono fare i turni per dormire. João, un nero mingherlino di circa 20 anni, si avvicina zoppicando. Ha un taglio profondo sul ginocchio sinistro, l’osso sporge. È così dal giorno dell’arresto, la settimana prima. Nessuno l’ha medicato. Adriano un compagno più anziano con gli occhi lucidi per la febbre, supplica un antibiotico. Josinho chiede qualcosa per la tosse che non lo abbandona, notte e giorno. Pedro, il volontario, annota mentalmente le varie richieste: carta e penna non sono consentite. In un modo o nell’altro cercherà di trovare i medicinali.
«Qui danno solo psicofarmaci, per tenerli buoni: ogni giorno, nelle 160 carceri statali di San Paolo, muore almeno un detenuto per “cause naturali”», racconta Pedro. Cioè per mancanza di cure. È questo a fare soffrire di più i reclusi. Più ancora del cibo avariato, della carenza di dentifricio, sapone, dell’acqua della doccia a intermittenza, della noia, dato che non è prevista alcuna attività, non c’è corrente per la tv e libri e giornali sono vietati. L’unico scaffale-biblioteca si trova fuori dal Blocco. Ma non è per i detenuti: solo gli agenti vi hanno accesso. I divieti, tanto rigorosi, non impediscono che – come tutte le fonti confermano – all’interno dei penitenziari circoli di tutto: dalla droga, alle armi, ai cellulari. Ai rifornimenti, a Pinheiros, ci pensa il Pcc. O una delle gang minori che controllano gli altri raggi. Le mafie assicurano ai parenti gli spiccioli per portare ciò che lo Stato non dà: cibo decente, farmaci salvavita, qualche abito pulito e scarpe. Affiliarsi, dunque, è l’unico modo per sopravvivere.
«Entrano come ladruncoli e piccoli spacciatori. E, dietro le sbarre, sono costretti a farsi reclutare delle bande del narcotraffico. Per questo, le carceri sono chiamate “le università” del crimine», sottolinea Pedro. In cambio della protezione, il detenuto offre l’unica cosa che ha: la propria vita. A un cenno della banda, deve immolarsi combattendo con il “nemico”. Dentro e fuori. Ciò spiega le cicliche rivolte all’interno delle prigioni. Queste sono, in realtà, “test” cruenti con cui le mafie misurano reciprocamente le forze. L’ultima prova – tra il Pcc e il Comando vermelho per il controllo dell’export del narcotraffico – è ancora in corso e ha ucciso, solo nel mese di gennaio, 121 prigionieri. Cinquantasei sono morti nel massacro di Capodanno a Manaus: la seconda peggior tragedia dopo Carandiru.
Le rivolte hanno surriscaldato il clima anche a Pinheiros. Una giudice è stata inviata a verificare le condizioni della struttura. Il magistrato, come Avvenire ha potuto testimoniare, non è entrato nei Blocchi. È salita nell’ufficio del direttore, si è fatta portare due detenuti a cui chiedere informazioni ed è andata via. Il rapporto dirà che tutto è regolare. La giudice non si è insospettita per il fatto che i reclusi selezionati fossero vestiti di tutto punto: avevano perfino le scarpe, bene introvabile dietro le sbarre. Né ha ritenuto necessario fare ulteriori indagini, fosse anche solo mettere piede nei padiglioni