Uno degli accampamenti di Citta del Messico dove vivono centinaia di famiglie di migranti
Carmen e Juan sono seduti fuori da una tenda, sul marciapiede di una delle metropoli più popolose al mondo: Città del Messico. Hanno trentacinque e quarant’anni, vengono dal Venezuela, sono migranti. «Siamo arrivati da tre settimane» dicono, poi indicano un portone alle loro spalle. «Possiamo stare qui solo perché i proprietari di casa ce lo permettono, anzi, quando possono ci aiutano con cibo o medicine. Ma sono un’eccezione, qua nessuno ci vuole. Di notte arrivano altre persone, sparano, picchiano sulle nostre tende. Noi abbiamo per protezione solo la plastica». Che cosa fanno, qui accampati? «Aspettiamo di poter ripartire per gli Stati Uniti». Come loro, migliaia di altre persone migranti sono ferme a Città del Messico, bloccate, in attesa. Alcune si incontrano a pochi passi da Carmen e Juan, in un’altra distesa di tende che si sviluppa sui due lati di una ferrovia. Ci sono due bambini che giocano, un uomo che stende un materasso sui binari, una donna che cucina su un piccolo fuoco.
La loro condizione sospesa è una novità degli ultimi mesi, ci spiegano suor Kathia Di Serio, missionaria comboniana, e padre Juan Luis Carbajal, responsabile della Pastoral de Movilidad Humana dell’arcidiocesi di Città del Messico. «Solitamente qui i migranti arrivavano e ripartivano in poco tempo, per provare a entrare il più velocemente possibile negli Stati Uniti. La situazione è cambiata molto a metà del 2023, quando l’amministrazione americana ha modificato alcune procedure per chiedere asilo – raccontano i due religiosi –. È stata emessa un’app che è diventata ormai quasi l’unico modo per ottenere un colloquio legale alla frontiera statunitense. Si chiama Cbp One, i migranti devono scaricarla sul loro smartphone, registrarsi, fornire alcune foto, rispondere a una serie di domande. Per usare l’applicazione però devono essere per forza geolocalizzati a Città del Messico o più a nord». Un vincolo geografico, quindi, che si unisce a lunghi tempi di attesa: tra la domanda di colloquio alla frontiera e la risposta possono passare mesi. Così le persone rimangono bloccate, come se un pezzo di confine si fosse spostato proprio qui, in città.
«Per i migranti, la vita è dura. Sono esposti di continuo a violenza e criminalità, subiscono abusi, sono ricattati da funzionari corrotti» spiega suor Kathia, che mentre parla si ferma tra le tende a salutare una ragazza di vent’anni. Ha in braccio un bambino di due mesi: è il suo secondo figlio ed è nato prematuro proprio nel periodo in cui la donna si sarebbe dovuta presentare alla frontiera statunitense per il colloquio tanto atteso e ottenuto con l’applicazione. «Lei sperava che il bambino nascesse già negli Stati Uniti - racconta ancora Di Serio - Invece ha perso il colloquio. Così ora deve rifare la procedura con l’applicazione da capo».
Ai traumi che le persone accumulano in viaggio si devono poi aggiungere quelli vissuti a casa, prima di partire. La maggior parte dei migranti in questi mesi sono arrivati dal Venezuela, stato che vive una crisi economica durissima e dove gli oppositori alla presidenza di Maduro vengono sistematicamente arrestati. Altri arrivano da Haiti, paese in mano alle gang criminali. «La loro salute mentale è molto fragile, in tanti soffrono di ansia, depressione, stress post-traumatico. In più, devono riuscire a lavorare mentre sono in attesa perché hanno bisogno di soldi per mangiare e per continuare il viaggio. Vengono reclutati spesso dalla criminalità organizzata o costretti a lavorare in condizioni di schiavitù, pagati 200 pesos (9 euro, ndr) al giorno per lavorare anche 14 ore» aggiunge padre Carbajal. Le storie e le testimonianze che ha raccolto in questi mesi arrivano soprattutto da una casa di accoglienza di cui è responsabile, gestita dai padri scalabrianiani. La struttura si trova in un quartiere periferico, considerato uno dei più pericolosi in città. Ha muri e cancelli alti decine di metri, pareti gialle e un cortile interno con i giochi per i bambini. Qui vivono 220 persone migranti, in stanze da letto condivise ma distinte per uomini e donne. Chi arriva può fermarsi di regola tre settimane, un tempo che però può essere prolungato in casi di particolare necessità. Mentre sono qui, i migranti hanno il compito di organizzare turni di cucina e pulizia e possono partecipare ad alcune attività di socializzazione e cura.
«Le persone che incontriamo hanno ferite profonde - specifica padre Juan Luis - magari hanno perso figli, genitori, amici durante il viaggio o sono state rapite e violentate dalla criminalità organizzata che controlla la rotta migratoria. Ci rendiamo proprio conto che i migranti diventano carne da macello, sono come un albero caduto su cui tutti si buttano per depredare la legna. Vengono strumentalizzati per le campagne elettorali, usati sempre come bandiere da sventolare».
Tra le vittime ci sono anche i bambini. Nella casa dei padri scalabriniani ne incontriamo a decine, con la loro voglia di saltare, giocare, ballare. Conosciamo Ales, 5 anni, che viene dal Venezuela. Ora sta con gli altri bambini, ma ha ricominciato a parlare solo da pochi giorni dopo un silenzio lungo settimane e causato dalle violenze subite in viaggio. Per lui e per gli altri bambini, la scuola è un miraggio: in Messico i migranti non sono ammessi al sistema scolastico. Provano a rimediare le realtà del terzo settore e religiose che operano sul territorio, con lezioni di lingua e scrittura per provare a scongiurare almeno il rischio analfabetismo. «Qui vediamo le situazioni più diverse - rimarca padre Juan Luis - Arrivano persone che non hanno studiato ma anche professori universitari costretti a lasciare il loro paese. L’applicazione Cbp One ha poi in qualche modo suscitato un’attrazione anche per persone che da anni si erano più o meno stabilizzate in Cile, Ecuador, Colombia. Ci hanno visto una speranza di entrare legalmente negli Stati Uniti, hanno deciso di lasciare tutto una seconda volta e sono ripartite di nuovo».
Quando partono, i migranti sono consapevoli di ciò che li attenderà in viaggio? Risponde ancora Padre Juan Luis: «È una domanda difficile, qualcuno è consapevole, qualcuno meno. Settimane fa ho incontrato un ragazzo che mi ha detto che partire è stata la decisione peggiore della sua vita. Sua sorella è già negli Stati Uniti, lui ha lasciato il Venezuela per raggiungerla, insieme a sua mamma. Ma proprio la madre non è sopravvissuta al viaggio».
Negli ultimi mesi, la richiesta alla Casa del Migrante è stata così alta che i padri scalabriniani hanno dovuto aprire un’altra struttura di accoglienza. La loro testimonianza è simile a quella di altre organizzazioni, che stanno moltiplicando gli allarmi per la situazione. «Se fino a qualche tempo fa i migranti trovavano tregua a città del Messico, oggi non è assolutamente più possibile parlarne come di un posto sicuro», ha scritto in una nota Medici senza frontiere, che ha registrato un aumento del numero di violenze, estorsioni, rapimenti e indica almeno 3 tendopoli dove vivono dalle 800 alle 1200 persone, tra cui molti bambini e donne incinte. Amnesty International invece punta il dito proprio sull’applicazione Cbp One.
«L’uso obbligatorio dell’applicazione per chiedere asilo è una chiara violazione del diritto internazionale e dei diritti umani e dei rifugiati», ha scritto l’organizzazione, «Cbp One ha trasformato il diritto a chiedere asilo in una lotteria basata sulla fortuna». Scettici suor Kathia e padre Juan Luis: c’è qualche possibilità che la situazione cambi a breve? «È molto difficile che migliori – concludono i due – Gli Stati Uniti hanno già diminuito il numero di persone che possono entrare nel paese. Staremo a vedere con le elezioni di novembre, ma temiamo che la vita per chi migra diventerà ancora più dura».