«Molto ottimista». Così da Khartum l’avvocato di Meriam Yehya Ibrahim, la donna di 27 anni e incinta di otto mesi condannata a morte da un tribunale locale per apostasia. Venerdì era filtrata la notizia di un nuovo processo, la cui data è attesa entro fine giugno, prima dell’inizio del Ramadan. «Sono molto ottimista sul fatto che la corte d’appello possa invertire la sentenza emessa dal giudice, che ha avviato il procedimento a seguito della denuncia del fratello e degli zii paterni della donna», ha riferito l’avvocato
Mohamed Jar Elnabi. Secondo il legale della giovane ci sono speranze, anche perché «la Costituzione del Sudan permette la conversione religiosa senza restrizioni».In ogni caso, fanno notare altre fonti sudanesi, l’esecuzione della condanna a morte non potrebbe essere immediata. In Sudan è vietata, infatti, l’esecuzione di donne incinte al momento della sentenza di morte: per tutelare il nascituro, la condanna a morte deve essere posticipata a due anni dopo il parto, il che farebbe guadagnare tempo prezioso. La difesa di Meriam conta comunque di ribaltare totalmente la stessa sentenza di colpevolezza della donna, cresciuta dalla madre etiope come cristiano ortodossa.Il caso è salito alla ribalta giovedì. Un giudice locale aveva dato alla donna tre giorni di tempo per abiurare il cristianesimo e tornare alla fede islamica, la religione del padre fuggito quando lei aveva sei anni. Ma Meriam, che ha già un figlio di 20 mesi che si trova con lei in carcere, non ha avuto dubbi: «Sono cristiana e non ho mai commesso apostasia», ha risposto al magistrato. Che, inflessibile, a quel punto l’ha condannata a morte e a 100 frustate, perché sposata con un cristiano, Daniel. In base alla sharia, infatti, Meriam è islamica in quanto figlia di un musulmano. Inoltre, il matrimonio di una musulmana con un uomo di un’altra fede non è considerato valido dalla legge e viene quindi considerato adulterio.La vicenda di Meriam ha suscitato subito lo sdegno delle organizzazioni umanitarie e le proteste di numerose ambasciate straniere. Anche il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, si è unito venerdì alla campagna Twitter #Meriamdevevivere lanciata da
Avvenire. Il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ha riferito ieri che il Sudan è «una nazione vicina al cuore» di Papa Francesco, «una nazione che negli anni recenti è stata lacerata da violenza e disordini civili». Nella cattedrale di San Cristoforo a Roermond, in Olanda, Parolin ha consacrato monsignor Hubertus Matheus Maria van Megen, nominato il 9 marzo da Papa Francesco nunzio apostolico nel Paese africano. Secondo Parolin, il nunzio apostolico, riferisce
L’Osservatore Romano, dovrà portare in Sudan un messaggio di riconciliazione e di misericordia.A Khartum il presidente del Parlamento, al-Fatih Izz al-Din, ha minimizzato la condanna a morte nei confronti di Meriam, sostenendo che si tratta solo di un primo giudizio e che la campagna internazionale a favore della donna ha come obiettivo quello di distorcere l’immagine del Paese e del suo sistema giudiziario. Altre fonti sottolineano che il governo non ha interesse in questo momento ad andare avanti sulla linea dura e che per questo nel nuovo processo Meriam non verrà giudicata con la sharia, il che escluderebbe anche una condanna a morte. «Il Sudan è impegnato a garantire tutti i diritti umani e la libertà di religione insiti nella Costituzione», ha detto un portavoce del ministero degli Esteri, Abu-Bakr al-Sideeg.