Un tempo, su altri fronti, la si chiamava strategia della tensione. E se da un lato la portata «storica» del vertice è rilevante così come il passo in avanti verso la pace dopo 65 anni di guerra mai conclusa, è altrettanto innegabile però che se anche non c'è un progetto comune che sottende la questione coreana, l'evolversi dei fatti ha fatto e fa comodo a tutti. Con il risultato che l'obiettivo della denuclearizzazione (ben sapendo tutti che indietro ormai non si torna e Pyongyang è e resterà una potenza atomica) ha portato a un aumento vertiginoso degli armamenti nell'intera regione. I «little rocket man» di Trump rivolti al «bambinone» o le repliche stizzite di Kim sulle dimensioni del «pulsante nucleare», gli esperimenti nucleari e i lanci di missili sulla pelle della popolazione del Nord sempre più strumento e non fine delle politiche dittatoriali, altro non hanno fatto che legittimare l'escalation militare. Di tutti.
Della politica di riarmo del Giappone dell'intraprendente Abe, pian piano sta aggirando la Costituzione del dopoguerra improntata sul disarmo, mentre la ricostituzione dell'esercito è negata solo dal fatto che non lo si chiami con il suo vero nome ma Forze di autodifesa giapponesi. Del leader di Pyongyang, che ha riguadagnato galloni e stima da parte di Pechino: la Cina ha dovuto infatti ricredersi dopo averlo per un lungo periodo sottovalutato, convinta di poter continuare a tenerlo a bada attraverso la cerchia di parentele e consiglieri di vecchia data che circondavano il giovane dittatorello che a colpi di veleni e purghe si è liberato dal giogo di famiglia e dell'alleato di sempre d'oltreconfine. Ma su tutti chi ha giovato di più della "guerra delle parole", dell'escalation più mediatica (con la paura instillata più che reale), è stato Trump. Che ora insiste sul fatto che alla fine chi ha strillato più forte ha vinto: cioè lui. E per certi versi è così.
In primis, ha venduto sistemi antimissile a Tokyo e Seul facendo soldi, dopo averli convinti (o meglio: offrendo loro la scusa di esserlo davanti all'opinione pubblica domestica) che fosse l'unico modo per contrastare le follie di un «razzetto». Ma soprattutto raggiungerà, con il vertice di giugno con Kim, il suo primo e vero risultato di politica estera. Senza colpo ferire, approfittando del momento storico, della forza-debolezza di un regime che altrimenti sarebbe imploso e passando un colpo di spugna sugli scandali che in patria, (lì certamente), non gli danno pace.