Si protendono in molte direzioni i tentacoli di al-Qaeda, la piovra del terrorismo di matrice islamica che da anni colpisce l’Occidente e le stesse società musulmane. Il pericolo più forte per l’Europa e l’Italia arriva dall’Africa e dal Medio Oriente, come segnalava nell’intervista pubblicata ieri da
Avvenire il ministro degli Esteri, Franco Frattini. Una nuova fascia del terrore, che parte dalla Mauritania, si sposta verso il deserto del Sahara, prosegue fino alla Somalia e, superato il mare, arriva allo Yemen. Ma altre centrali operative sono presenti in un’area che giunge al Pakistan e all’Indonesia. La sigla terroristica che raccoglieva inizialmente diversi gruppi locali islamici può ormai contare su filiali che rivendicano in suo nome, come fosse un marchio registrato, i propri attentati. La "base" (questo è il significato del termine arabo al-Qaeda) ha subito una progressiva trasformazione in sei o sette "basi" tra loro interconnesse, un franchising che concretizza il sogno di Ossama Benladen di gettare le fondamenta di una struttura jihadista a livello mondiale. La testa della piovra, quella controllata dallo sceicco saudita e dal suo mentore egiziano Ayman al-Zawahiri, è presumibilmente ancora trincerata nelle zone di confine tra Afghanistan e Pakistan. Il suo fascino risiede, simbolicamente e nonostante le perdite subite, proprio nella capacità dei suoi capi di sottrarsi all’arresto, come pure nei periodici messaggi (l’ultimo risale al 14 settembre scorso) trasmessi al mondo. Lo stallo logistico di tale centrale è largamente compensato dal progressivo dilagare dei suoi alleati taleban, afghani e pachistani. La settimana scorsa, è confluito un gruppo salafita assicurando ai fondamentalisti il controllo di altre due province orientali dell’Afghanistan. La filiale qaedista più attiva sul terreno rimane quella irachena. L’"Organizzazione di al-Qaeda nella terra dei due fiumi", come si autodefinisce, è nata nell’ottobre del 2004, quando il giordano Abu Mussab al-Zarqawi, a capo del "Tawhid wal Jihad" (Monoteismo e guerra santa), ha giurato fedeltà al "capo dei capi" cambiando nome. L’uccisione di Zarqawi, avvenuta nel giugno 2006, e la nascita di milizie sunnite filo-governative (le cosiddette "Sahawat", Risveglio) nelle zone occidentali ha indubbiamente contribuito a ridurne il raggio d’azione senza peraltro estirparla del tutto. Il diritto di primogenitura, in termini cronologici, viene rivendicato dall’"Organizzazione di al-Qaeda nella penisola arabica". I colpi inflittil a essa dalle autorità saudite (cinque capi alla guida in soli due anni) l’hanno costretta a spostare il quartier generale nello Yemen, la terra d’origine dei Benladen. Senza peraltro rinunciare a "punire" la dinastia wahhabita, come dimostra l’attentato (fallito) del 27 agosto contro il principe Mohammed bin Nayef, alto responsabile della sicurezza. A rivestire lo stesso ruolo a partire dall’Algeria è l’"Organizzazione di al-Qaeda nel Maghreb islamico", che copre l’intero territorio nordafricano. La cellula è nata nel settembre 2006 con l’adesione del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc), noto in Algeria sin dal 1998. Il suo leader Abdelmalek Droukdel, alias Abou Mussab Abdel-Wadoud, ammette di arruolare giovani tunisini, marocchini e mauritani. È in particolare da questa filiale, come sottolinea Frattini, che arriva il pericolo per l’Italia e l’Europa, nonostante il calo degli attentati kamikaze registrato nel 2009 (uno solo rispetto ai sette del 2008) e la "neutralizzazione" di una decina di "emiri" e oltre 200 terroristi. Un altro tentacolo della piovra soffoca l’Africa orientale, dove al-Qaeda si era manifestata già nel 1998. La filiale opera da anni in una Somalia dilaniata dalle lotte intestine, con il favore di diversi gruppi radicali, come il movimento Shaabab (Giovani), inserito sin dal febbraio 2008 dall’amministrazione Usa tra i movimenti terroristici legati ad al-Qaeda. Più articolata si presenta la succursale qaedista nel Sudest asiatico che in quell’area conta su una nebulosa locale che comprende la Jemaah Islamiyah di Abu Bakar Baasir, attiva in Indonesia e Malaysia, e la Haraka islamiya filippina, più nota sotto il nome di "Gruppo di Abu Sayyaf", guidata da Khadafi Janjalani, entrambe protagoniste di efferati attentati. Spunta periodicamente in Medio Oriente anche "al-Qaeda nella Grande Siria e in Egitto" o meglio "nei Bilad al-Sham e Ard al-Kinana", secondo il lessico islamico caro ai terroristi. A questa filiale sono riconducibili ripetuti attentati avvenuti negli anni scorsi nel Sinai e in Giordania. Secondo recenti informazioni, la cellula starebbe cercando di infiltrare elementi pachistani e arabi nei campi palestinesi del Libano con l’obiettivo di attaccare le forze dell’Unifil presente nel Sud. Negli ultimi anni ha agito attraverso il gruppo Fatah-al-Islam, che ha scatenato nel 2007 violenti combattimenti con l’esercito libanese nel campo di Nahr al-Bared, e il gruppo salafita, che ha cercato di creare un emirato islamico a Gaza sfidando l’autorità di Hamas. Non è, infine, un ramo secco la filiale europea che si è fatta sentire negli ultimi anni a Madrid e a Londra, anche se le "cellule dormienti" non dispongono di una base territoriale sicura. Il processo, concluso pochi giorni fa in Marocco, contro i 14 giovanissimi membri della cellula "Fatah al-Andalus" (Conquista dell’Andalusia) ha ancora una volta evidenziato contatti con altre terroristi residenti in Europa. Segno, questo, che la guardia non va mai abbassata.