Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, arriva per la firma dell'accordo con i taleban a Doha - Reuters
È stato firmato oggi a Doha, in Qatar, lo storico accordo di pace fra Stati Uniti e taliban, che mette fine a 18 anni di guerra. Per gli Usa ha firmato il segretario di Stato, Mike Pompeo. L'accordo, che segue una settimana di tregua sul terreno, apre la strada all'inizio dei negoziati tra le milizie ribelli e il governo di Kabul. Gli Usa hanno annunciato il ritiro completo delle truppe (anche Nato) entro 14 mesi, riducendole da 20mila a 8.600 uomini nei prossimi 135 giorni.
Era da luglio 2018 che gli Stati Uniti "corteggiavano" i taleban, per imboccare una via d’uscita plausibile dal labirinto afghano. Oggi si apre finalmente uno spiraglio. Insufficiente a cantare vittoria, frutto di trattative a volte aspre, altalenanti, con un’incognita gravosa: il governo afghano non è mai stato presente né durante i negoziati fra le parti a Doha, né durante le riunioni organizzate da Mosca con gli emissari taleban. Certo, dopo ogni incontro con i taleban, Zalmay Khalilzad (il rappresentante speciale del governo Usa per l'Afghanistan, ndr) ha fatto la spola con Kabul, una delle tappe obbligate dei suoi tour presso le potenze regionali. Ma la retorica permanente sul dialogo intra-afghano è rimasta finora senza seguito. L’incertezza è ancora maggiore se si tiene conto del risultato elettorale delle ultime presidenziali, che hanno consegnato un quadro di scontento e di dissidi interni fra la classe politica filo-occidentale.
L’accordo appena siglato a Doha è solo una tappa, intermedia, di un percorso ancora lungo. Donald Trump lo presenterà come un successo definitivo, più elettorale che reale. Riportare i marine a casa gli varrà il plauso degli elettori repubblicani, stanchi di 19 anni di guerra insolubile, nonostante i moniti del Senato. Ma come accadde con i ritiri di Richard Nixon dal Vietnam (1972) e di Barack Obama dall’Iraq, il bye bye di Trump all’Afghanistan potrebbe rivelarsi disastroso, soprattutto per il governo di Kabul e le conquiste civili delle donne. La storia suggerisce prudenza: il dialogo con i taleban c’è sempre stato, almeno dal 2009, ed è stato costellato da una miriade di insuccessi, a partire dall’Alto Consiglio per la pace, patrocinato da Hamid Karzai, al Processo di Istanbul promosso dalla comunità internazionale.
Davvero gli Usa lasceranno frettolosamente l’Afghanistan dopo solo una settimana di pausa nei combattimenti, consegnando il paese all’influenza russa e iraniana? I taleban hanno oggi in pugno 74 distretti afghani e ne insidiano 190. Solo il 33% del paese è saldamente in mano al governo centrale. Senza il deterrente delle 20mila truppe americane e alleate, i guerriglieri jihadisti potrebbero presto marciare su Kabul, vanificando gli sforzi fatti. Qualcosa che ricorderebbe la caduta di Saigon tre anni dopo la firma degli accordi di pace di Parigi.
Sull’accordo di Doha pendono tante incognite gravose: come smilitarizzare i guerriglieri e i tanti signori della guerra che dettano legge in Afghanistan? Come scongiurare la minaccia di al Qaeda e della branca afghana del Califfato? I taleban hanno garantito che non concederanno alcun santuario ai terroristi internazionalisti. Ma fra taleban e qaedisti i legami sono molteplici e longevi. Sirajuddin Haqqani è il loro trait d’union con al Qaeda. Combatte per i taleban e ha un serbatoio di 15mila uomini. La strada per la pace è ancora in salita.