Undici passi. Li percorre con lentezza, da una parete all’altra. E poi ricomincia. Ancora e ancora. Ventidue, trentatré, quarantaquattro… Finché i numeri diventano troppo grandi per essere contati e la cantilena della voce si confonde col rumore dei sandali sul pavimento di pietra. È l’unico esercizio fisico concesso ad Asia Noreen Bibi da quando le minacce degli estremisti islamici l’hanno costretta a ridurre, fin quasi ad azzerare, l’ora d’aria. Questa donna minuta, che dimostra ben meno dei suoi 46 anni, varca sempre più raramente la soglia della cella «senza finestre» dov’è rinchiusa ormai da 21 mesi, su un totale di oltre 42 di prigionia. Lì, nel braccio della morte del carcere pachistano di Sheikhupura, attende che cominci un nuovo processo presso l’Alta Corte di Lahore. Potrebbero volerci altri mesi o anni. E potrebbe essere un ennesimo verdetto di condanna. Alla forca. Così vorrebbero i fanatici musulmani che, fin dall’inizio della vicenda, nel 2009, premono sui giudici perché «mettano a morte la blasfema».
Asia Bibi, però, non cede alla disperazione. Dopo “la passeggiata”, si siede e legge la Bibbia. «Dio sa quel che fa», non si stanca di ripetere. E di ringraziare, quanti in tutto il mondo – Ong, istituzioni, associazioni, persone comuni – si stanno spendendo per salvarla. Per strappare un’innocente al patibolo. Perché chiunque ripercorra il suo calvario giudiziario – al di là del credo religioso o delle opinioni politiche – non può non constatare che contro Asia Bibi non esista una sola prova concreta. Solamente testimonianze, voci, accuse. Che dimostrano, ancora una volta, come spesso la controversa legge anti-blasfemia sia lo strumento per colpire nemici, veri o presunti, per risolvere conflitti personali, dispute fra vicini. La fede cattolica di Asia Bibi e della sua famiglia – il marito Ashiq Masih e i cinque figli: Imran, Nasima, Isha, Sidra e Isham – suscita diffidenza nella piccola comunità di Ittanwali, in Punjab. Una religione altra rispetto a quella della maggioranza islamica. Che per questo li discrimina, li emargina, li esclude, in ogni modo possibile. Finché alla fine il rancore esplode. È una storia di pregiudizi, intolleranza, povertà, consuetudini arcaiche e maschilismo feroce quella che ha travolto la vita di Asia Bibi un giorno di giugno del 2009. Asia, bracciante agricola pagata (o meglio, sottopagata) a ore si trova nei campi. All’ora di pranzo si ferma per mangiare il solito riso e bere un sorso d’acqua dalla borraccia che poi offre alle altre contadine. Bizzarro che all’origine del dramma ci sia un gesto di normale cameratismo. Le compagne rifiutano perché «non si può bere dalla stessa borraccia di una cristiana». Da qui il diverbio. Una lite banale, sfociata in tragedia. Una delle contadine accusa Asia di aver insultato Maometto. «Blasfema», grida. Nessuna delle presenti sa riportare che cosa abbia detto di preciso la cristiana. Eppure tutte si agitano, urlano, strattonano Asia e la trascinano in una stanza. Una delle protagoniste è la moglie dell’imam locale. E così il litigio si trasforma in una denuncia formale per “blasfemia”. Asia giura di «non aver mai detto niente di male. Non avrei mai offeso Maometto ». La folla non la ascolta. Addirittura uno dei suoi accusatori la stupra, mentre nessuno alza un dito per fermarlo. Non c’è pietà per la “diversa” Asia. La via cricis giudiziaria è infinita: l’arresto, l’incarcerazione, il primo processo, la condanna all’impiccagione, il tentativo del presidente Zardari di graziarla, l’opposizione degli ulema radicali, le minacce degli estremisti che arrivano ad imporre una taglia di 4.400 euro sulla sua testa, l’isolamento per ragioni di sicurezza. Chi si mobilita per lei – prima il governatore musulmano del Punjab, Salman Taseer, poi l’allora ministro per le Minoranze religiose, il cattolico Shahbaz Bhatti – viene assassinato brutalmente. Asia, però, non si arrende. E continua a gridare la sua innocenza e a rivendicare il diritto alla libertà di coscienza. Tanto che quando il giudice Naveed Iqbal – lo stesso che ha pronunciato la sentenza di morte – va da lei e le propone di convertirsi all’islam in cambio della libertà, risponde: «Preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana». Al suo coraggio, l’associazione spagnola Hazte Oir, il 15 dicembre, ha assegnato il Premio 2012. In quell’occasione la donna ha scritto una lunga lettera che Avvenire ha pubblicato lo scorso 8 dicembre. Dalla sua cella «senza finestre», Asia tende una mano verso tutti noi. «Non so se questa lettera ti giungerà mai. Ma se accadrà, ricordati che ci sono persone al mondo che sono perseguitate a causa della loro fede e se puoi prega il Signore per noi e scrivi al presidente del Pakistan per chiedergli che mi faccia ritornare dai miei familiari ». Abbiamo raccolto il suo appello, e molti si sono uniti a noi. Come dimostrano queste pagine.