La prima Plenaria di ieri, aggiornata poi alla notte nell'intento di trovare un accordo all'ultimo - Reuters
Un lungo applauso nella sala Nizami dello stadio di Baku ha sottolineato la parola “approvato”. Alle 2.40 (ora locale), la 29esima Conferenza Onu sul clima (Cop29) ha trovato l'accordo fra i 197 Paesi parte più l'Ue sulla quantità di aiuti da versare al Sud del mondo per contenere le emissioni e adattarsi al riscaldamento globale. Ci sono volute oltre trentadue ore in più del previsto, il che rende questo il quinto vertice più lungo nella storia delle Cop. Il record va al summit di Madrid del 2019: quasi 44 ore in più rispetto alla tabella di marcia. Di certo, quello di Baku è stato tra i summit più difficili, come ha dimostrato l'ultima, convulsa giornata, tra finte plenarie, litigi furibondi, uscite dalla sala dei negoziati sbattendo la porta. E i cui risultati si configurano fra i più deludenti. Il tema principale, del resto, era spinoso: la finanza. «Quando ci sono i soldi tutto si complica» ha sintetizzato il premier delle Fiji, Biman Brasad. Già, i soldi. Le nazioni a basse e medio reddito hanno necessità di almeno 1.300 miliardi dall’estero – tredici volte la quota attuale di 100 miliardi – per contenere le emissioni e adattarsi al riscaldamento globale nel prossimo futuro. La cifra, calcolata dal gruppo di esperti indipendenti incaricati della stima dalle Nazioni Unite, non è in discussione. Il punto è in che misura i Paesi ricchi – responsabili dell’aumento mondiale delle temperature – devono contribuire. Alla fine, dopo un'estenuante braccio di ferro, grazie alla mediazione dell'inviata brasiliana Marina Silva, supportata dall'Unione Europea, la cifra di compromesso è stata di 300 miliardi a partire dal 2035. Duecento in meno rispetto alla richiesta degli Stati poveri.
La ministra dell’Ambiente del Paese ospite della prossima Cop, in realtà, aveva provato ad alzare la posta a 390 miliardi, senza spuntarla. Almeno, nel testo finale, è comparsa una “road map da Baku a Belém” per cercare di attivare un processo finanziario che consenta di raggiungere la soglia dei 1.300 miliardi e la valutazione dei progressi fatti nel 2030. I Paesi ricchi si sono anche lasciati le mani libere per abbinare ai finanziamenti pubblici diretti – scarsi al momento, meno del 40 per cento del totale –, investimenti privati e soprattutto prestiti, più o meno agevolati. Uno schiaffo per le nazioni fragili, già schiacciate dal debito, nonostante nel documento sia riconosciuta l'importanza di concessioni a fondo perduto soprattutto per le economie povere e i piccoli Stati insulari, particolarmente vulnerabili di fronte al cambiamento climatico. Non stupisce, dunque, che i delegati del Sud del mondo tornino a casa con l’amaro in bocca. Al di là delle parole di circostanza, ancora una volta, i Grandi sono stati incapaci di dare un segno concreto di impegno. Tanto più che, pur astronomiche sulla carta, le cifre chieste rappresentano un traguardo raggiungibile senza eccessivo sforzo: i G20 hanno sborsato, lo scorso anno, 1.500 miliardi per sussidiare le superinquinanti fonti fossili. «Pagate o state zitti», si leggeva nei cartelli innalzati dai dimostranti ieri al passaggio dei delegati.
«Trecento miliardi sono una cifra inadeguata. È comprensibile la delusione» sottolinea Ana Dasgupta, presidente del World resource institute. «Gli occhi ora sono puntati su Ue e Cina per capire se decideranno di lavorare insieme per fare da traino sul clima. Con l'uscita di scena degli Stati Uniti il maggior peso ricade su di loro» sottolinea Luca Barbareschi, direttore del think tank italiano Ecco. Molti hanno criticato il presidente del vertice, il ministro dell’Ambiente azero, Mukhtar Babayev, accusato di poca trasparenza e di incapacità di mediare. Le due settimane di negoziati intricati sono stati segnati dai conflitti. Addirittura, il delegato dell’Arabia Saudita, il ministro dell’Energia Basel Alsubaity, è stato accusato di modificare in segreto i testi, ammorbidendoli sul punto dolente per Riad: i riferimenti ai combustibili fossili. La rappresentante tedesca, la ministra degli Esteri Annalena Baerbock, ha denunciato «un gioco di potere geopolitico da parte di pochi Stati produttori di petrolio sulle spalle dei Paesi più poveri». Nell'ultimo pomeriggio, il più convulso, i rappresentanti di piccole isole e Paesi più vulnerabili sono usciti indignati dalla sala delle trattative dopo l'ennesima bozza sulla cui stesura non erano stati consultati. «Perché dovremmo rimanere se tanto non veniamo considerati?» ha detto Cedric Schuster, delegato di Samoa, in tono accorato.
Soldi a parte, l'intesa di maggior rilievo, probabilmente, riguarda l’istituzione del registro internazionale dei crediti di carbonio, il tassello mancante per rendere pienamente operativi gli Accordi di Parigi. Finora, gli acquisti di progetti di decarbonizzazione dall'estero per compensare le proprie emissioni erano consentito solo alle aziende. Il sistema, privo di regole, ha dato luogo frodi e scandali. «Ora c’è un quadro pubblico di riferimento che consente di andare oltre il Far West» spiega Jacopo Bencini ricercatore di Eui Carbon markets hub, dell’Istituto universitario europeo. Questo dovrebbe ridurre i costi globali della lotta alle emissioni di 250 miliardi l’anno. Alla fine, dunque, si torna ai soldi.