Il cardinale Gianfranco Ravasi - Imagoeconomica
C’è un termine oggi più abusato di “sostenibilità (a parte “resilienza”, s’intende)? Non è che a furia di usare questo termine si finisce per depotenziarlo e ridurlo a stereotipo, senza agire concretamente in maniera “sostenibile” (appunto)? Per il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura, che oggi a Roma, presso la Camera dei Deputati, riceve il Premio De Sanctis Sostenibilità - insieme all’imprenditore Roberto Sancinelli, all’economista Alessandro Lanza e al Comitato nazionale di volontariato della protezione civile - , il rischio, di fatto, c’è.
Come possiamo allora non depotenziarne il significato?
Credo sia importante riuscire a fare sulla sostenibilità una riflessione non solo scientifica, ma culturale in senso ampio, far comprendere che la grande tradizione culturale ha sempre esaltato l’idea del mondo come casa dell’umanità. Davanti a grandi temi concreti come quelli della sicurezza energetica e delle risorse naturali, è opportuno ogni tanto non solo fissare le buone pratiche, ma anche proporre una visione, come ha fatto il Papa in “Fratelli tutti”, intrecciando le due dimensioni. Questa visione religioso-culturale fa comprendere un po’ di più il senso e i limiti. Nicola Stenone –grande scienziato del ‘600, beatificato da Giovanni Paolo II e vescovo di Hannover – diceva: «Belle sono le cose che si vedono, più belle quelle che si conoscono, bellissime le cose che si ignorano». Ecco, questa è la consapevolezza che in questi temi c’è anche una dimensione che non è riducibile solo agli schemi di tipo scientifico, ma anche qualcosa che va oltre: pensiamo solo all’aldilà, noi non siamo che una particella nell’universo.
In tempi di conflitti e di persone che fuggono per i cambiamenti del clima, la chiusura delle frontiere invocata da Donald Trump e da molti Paesi europei è “sostenibile”?
La fuga da un’esistenza precaria e limitata a un’area dove fosse più possibile la vita è un fenomeno costante nella storia dell’umanità. Questo certo pone dei problemi: bisogna studiare come accogliere. Un tempo si dovevano fronteggiare le invasioni, come quelle dei barbari, ma la cultura greco-romana riusciva ad inglobare queste energie, certo non senza tensioni. Pensiamo cosa abbiamo acquisito noi dai franchi, che erano degli invasori. La capacità di una cultura di accogliere l’altro e passare dalla semplice multiculturalità all’interculturalità: questo richiede una visione culturale e sociale molto diversa da quella praticata da schemi brutali. Siamo noi popoli europei in grado di compiere questa operazione di integrazione? La scelta proposta da Trump e da altri, la scelta del duello, e chi ha la spada più efficace vince, è certo più facile. E invece sarebbe meglio la via del duetto, come nella musica: c’è un soprano e un basso, ognuno tiene la sua tonalità ma si riesce a creare armonia.
La sostenibilità è un diritto umano?
Io credo di sì, se partiamo dall’idea che noi siamo all’interno di un orizzonte, viviamo, respiriamo, amiamo. La sostenibilità non è solo una questione di politica generale, e in questi giorni lo abbiamo visto con la Cop29, ma è anche una questione molto personale: se tu vivi in un ambiente non sostenibile o, viceversa, rovini quell’ambiente, tu rendi difficile la vita alle persone. Un proverbio arabo dice: «Cosa c’è di più naturale dell’aria? Ma guai a non respirarla». L’aria è un diritto di vita e questo vale anche per la sostenibilità dell’alimentazione. Possiamo guardare alla Terra come se fosse una grande tavola, con i suoi frutti. Ma da una parte ci sono alcuni, pochi, soprattutto del nord del mondo, che hanno un eccesso di beni, e un numero enorme di persone, sedute a questa stessa tavola, che attende solo le briciole.
La Bibbia è anche un “manuale di sostenibilità”?
Il regno vegetale, il regno animale: nella Bibbia c’è un bestiario meraviglioso e anche una botanica. L’ecologia di Gesù è cosa umana e naturale. Pensiamo cosa significa il germogliare degli alberi. C’è un salmo che recita: “Uomini e bestie tu salvi, Signore”. Il mondo animale e quello vegetale fanno parte dell’esistenza di tutti e alla fine, se ci pensiamo, il tema del cibo è diventato l’elemento sacrale dell’eucaristia, che si pone come tema universale.
Il tema della cura del creato può accomunare credenti e non credenti?
Nel mio “Il Grande libro del Creato” ho scritto che Giovanni Paolo II riteneva che il mondo fosse un grande libro le cui lettere sono le moltitudini delle creature dell’universo. Anche altre religioni esaltano questa dimensione sacrale. Ad esempio, c’è una parabola nel mondo musulmano che dice che Dio aveva creato un grande giardino, da coltivare e custodire, in cui aveva posto gli uomini: «Per ogni cattiveria che commetterete io lascerò cadere nel giardino un granello di sabbia», disse loro. Uomini e donne pensarono non fosse una gran cosa, ma fu così che l’aridità cominciò a creare deserti, in una morsa di indifferenza dei suoi abitanti. Anche ai non credenti, che considerano il mondo non come creato ma come natura, dico sempre: il mondo fa parte della tua umanità.
L’intelligenza artificiale ci darà una mano a essere più sostenibili?
L’intelligenza artificiale può essere assolutamente preziosa in questo senso, con poche riserve di tipo etico. Certo, l’homo faber è la definizione dell’uomo per eccellenza, come colui che lavora e trasforma la natura: il fatto che molti lavori vengano assorbiti dall’IA pone qualche problema. Chi detiene le chiavi dell’IA, pensiamo alle multinazionali, può dominare ed espellere molti dal mercato del lavoro, con risvolti sociali importanti. Pensiamo anche alle terre rare, a come diventeranno. Si rischia insomma di demolire la dignità degli altri. C’è infine la questione dell’IA con algoritmo aperto, con la macchina che può scegliere tra molte possibilità. Certo, sono possibilità dategli dall’uomo, ma la macchina non considera probabilmente, con la stessa intensità, dimensioni esistenziali umane. Questo, certamente, non sarebbe sostenibile.