Roberta e Michele con quattro dei loro cinque figli
La piccola ha 9 mesi. Piange in braccio a Roberta, 46 anni, che da aprile è la sua mamma affidataria. In casa c’è un gran bel movimento. Oltre al marito Michele, 52enne, ci sono altri quattro minori. Il più grande, loro figlio adottivo, oggi ha quasi 15 anni. Ci sono i due gemelli di cinque anni, giunti da una comunità nel 2020 e da allora in affidamento rinnovato, prorogato cioè ogni due anni, come è previsto nei casi in cui non esistono le condizioni per il rientro nella famiglia d’origine.
Dallo scorso agosto, poi, c’è anche un’altra bimba di 17 mesi, arrivata, come l’altra, nell’ambito di un “progetto ponte”, quel provvedimento nato per dare pronta accoglienza a bambini molto piccoli, dichiarati in stato di abbandono dal Tribunale per i minorenni o allontanati, su indicazione dell’Autorità giudiziaria, dal proprio nucleo familiare. «Una penta famiglia più accessori, così chiamiamo la nostra», dice scherzando la mamma, «un nucleo fisso di cinque persone più altri piccoli che accogliamo con noi per periodi più o meno lunghi».
Roberta e Michele, sposati da 21 anni, hanno scoperto presto di non poter generare ma non hanno mai abbandonato il sogno di creare una famiglia numerosa. «Nostro figlio è arrivato a 7 mesi e mezzo, con un’adozione nazionale. L’abbiamo incontrato proprio in una famiglia affidataria che abbiamo frequentato, mentre eravamo in lista per le adozioni, interessati a conoscere anche il significato dell’affido. Di lì a pochi anni dopo è cominciata questa bellissima avventura», racconta. Un viaggio speciale quello dell’affidamento familiare, che permette a tanti bambini e ragazzi che non possono crescere serenamente nella loro famiglia di origine, di venire accolti in un ambiente sicuro e sereno finché i genitori naturali riescono a superare i loro problemi. Dipendenze, fragilità psichiatrica, violenza domestica e assistita: sono soprattutto queste le condizioni per le quali i Servizi Sociali decidono per l’affidamento.
Un gesto di straordinario valore umano e sociale, considerato ancora dall’opinione pubblica come esperienza d’eccezione e non come percorso possibile per ogni famiglia pronta ad accogliere senza calcolo né tornaconto. Proprio per ribadirne il significato autentico Fondazione L’Albero della Vita ha organizzato di recente a Milano il primo Festival dell’Affido, un momento di confronto tra esperti ma anche di racconto delle storie di chi ogni giorno vive questa esperienza, tanto preziosa quanto complessa. «Un’occasione che nasce dal bisogno di avvicinare non solo le persone che già sperimentano la realtà dell’affido ma anche chi, pur provandone il desiderio, si sente incerto e disorientato», chiarisce Lara Sgobbi, responsabile di Progetto Affido L’Albero della Vita. «È necessario promuovere un’informazione corretta, senza nascondere le difficoltà di questa prova ma svelandone anche gli aspetti gioiosi e costruttivi. Attraverso questi incontri ci preoccupiamo di creare consapevolezza nei potenziali genitori, portandoli a chiedersi qual è la vera ragione per cui decidono di accogliere un minore in difficolta».
Sono 300 i progetti di affido realizzati dalla onlus dal 2006 a oggi, di questi la metà a partire dal 2020. La maggior parte dei bambini hanno un’età compresa tra i 6 e i 10 anni, seguiti dalla fascia 0-3 e 3-6. La composizione per età vede invece una netta prevalenza di adolescenti tra chi è accolto nei servizi residenziali. La maggior parte delle famiglie affidatarie (60.6%) è senza figli. «Come L’Albero della Vita ci occupiamo di preparare e seguire la famiglia affidataria, collaboriamo con i servizi sociali per scegliere la realtà familiare più adatta per il minore, offriamo l’appoggio di psicologi ed educatori che sostengono la famiglia affidataria e i bambini accolti con incontri dedicati e strumenti pratici», informa la responsabile che traccia un profilo dei genitori.
«Queste mamme e questi papà non sono né martiri né supereroi, ma persone che si rivelano capaci di maneggiare dal punto di vista emotivo situazioni molto complesse in cui, da un lato ci sono i bisogni e le aspettative di crescita dei piccoli, dall’altro la necessità di condividere il dolore e il disagio delle famiglie di origine. Verso di loro », sottolinea l’esperta, «deve essere mantenuto il legame e il rispetto, senza trasferire ai giovani giudizi o sentimenti negativi. Al contrario questi genitori vanno sostenuti affinché riacquistino la loro capacità educativa. In fondo è questo il vero fine dell’affido: restituire i giovanissimi alle loro famiglie di origine», puntualizza Sgobbi. « Accogliere un minore che proviene da una casa inadeguata alla sua crescita non significa fare terra bruciata del suo passato ma condividere il percorso con i genitori naturali e aiutare bambini e ragazzi a riconoscere sempre le loro origini, in attesa che possano farvi ritorno. L’affido deve essere inteso come una grande forma di genitorialità sociale inclusiva, che può mettere a dura prova l’emotività di chi la sceglie ma contribuisce a cambiare il destino di tanti giovani, lasciando un segno profondo e duraturo nella loro vita».
Una strada che Roberta e Michele hanno percorso sempre con il sostegno della fondazione. «Un percorso tortuoso non privo, però, di gioie e gratificazioni », conferma mamma Roberta. «Abbiamo dovuto riorganizzare la nostra vita, gli impegni di lavoro e gli spazi personali. Ma ogni affido è per noi una storia meravigliosa, sempre diversa, per questo la cosa più difficile è lasciar andare questi bambini, sia che capiti dopo anni o poche settimane. Dà forza la consapevolezza di aver contribuito ad aiutare un piccolo in grave difficoltà e la riconoscenza della sua famiglia. Ricordo ancora le parole della mamma di un bimbo che avevamo preso in affido fino a quando ha potuto fare ritorno nel suo nucleo d’origine. “Tu avrai per sempre due mamme” aveva scritto al figlio in un diario tenuto per lui”» ricorda Roberta. Che ammette: «Certo, ad ogni distacco, se la mente è contenta, il cuore piange». Però subito aggiunge: «Di sicuro il lettino per i nostri piccoli ospiti rimane sempre aperto. E quando un altro bambino arriva da noi il cuore ritorna a sorridere».