
I tre volti dell’affido familiare. Quello sorridente del lieto fine. Quello controverso di una vicenda giudiziaria tutta da definire. E quello tratteggiato da una recente sentenza della Cassazione che sembra aver scritto la parola fine sulla dittatura delle ctu (consulenze tecniche d’ufficio), cioè le relazioni di psicologi e assistenti sociali su cui troppe volte in passato si sono fondate le sentenze dei tribunali minorili.
Partiamo dalle buone notizie. Avevamo già parlato del caso del piccolo Ivan, il neonato abbandonato in ospedale dalla madre a Palermo nel dicembre scorso e che sarebbe andato in affido preadottivo negli scorsi giorni, a oltre due mesi dal fatto. Le polemiche erano scoppiate per la lunga permanenza del piccolo in un reparto ospedaliero ma, come avevamo spiegato (vedi qui) il Tribunale per i minorenni non aveva potuto agire diversamente per l’assenza nel capoluogo siciliano e nelle zone limitrofe di famiglie preparate ad accogliere, quasi senza preavviso, un neonato e provvedere al suo accudimento in modo adeguato in attesa delle decisioni del giudice. Se sul territorio non esistono “famiglie ponte” – e l’associazionismo familiare, le comunità, gli enti del privato-sociale non avvertono la necessità di porre rimedio alla carenza – gli organi giudiziari non possono inventarle. Il sistema di tutela dei minori più fragili, quelli che non possono contare sul sostegno e sul calore di due genitori, è un delicato equilibrio di competenze e di alleanze. Se manca il cuore del sistema, cioè le famiglie affidatarie nelle diverse declinazioni, tutto si inceppa. Nonostante tutto il caso del piccolo Ivan si è risolto. Ha trovato una famiglia, il tribunale ne ha verificato l’idoneità e a breve dovrebbe arrivare la sentenza di adozione.
A oltre mille chilometri di distanza, nella zona tra Varese e Milano, anche per il piccolo Luca è arrivato un affido preadottivo in una nuova famiglia. E anche in questo caso il tribunale per i minorenni ne ha riconosciuto i requisiti per l’adozione. Ma qui il caso è più complesso. Il piccolo, 4 anni, era in “affido ponte” presso un’altra famiglia che l’aveva accolto poche settimane dopo la nascita. E con questi genitori è rimasto tutto questo tempo. Ora i giudici hanno deciso che il piccolo può essere adottato, ma hanno scelto una famiglia diversa, che Luca non ha conosciuto. I genitori affidatari non hanno accettato la decisione, perché dopo quattro anni consideravano quel bambino come loro figlio. E c’è da comprenderli. Hanno annunciato un ricorso e hanno raccolto tante adesioni di solidarietà.
Come mai non è stata rispettata la legge della continuità affettiva? Sulla vicenda è intervenuto anche il garante per l’infanzia e l’adolescenza della Lombardia, Riccardo Bettiga, che di mestiere fa lo psicologo, esprimendo sconcerto e perplessità: “Il tempo trascorso, 4 anni, cioè tutta la vita del bambino, non una parte, ha inevitabilmente stravolto quello che era un affido temporaneo, e ciò non per una responsabilità imputabile né ai genitori affidatari, né al bambino, tenendo conto anche della necessità di garantire il diritto alla salute soprattutto mentale, alla serenità e alla continuità affettiva, di cui apparentemente sembra non ne sia stato preso atto. Era pertanto così necessario e davvero obbligatorio far scontare la sofferenza per tale condizione alla famiglia e al bambino?”. Una posizione condivisa anche dalla garante nazionale per l'infanza e l'adolescenza, Marina Terragni: "La speranza è che possano essere individuate misure per garantire la continuità affettiva nell'interesse del bambino, interesse che è e resta la nostra assoluta priorità".
Alla domanda aveva in realtà già risposto nei giorni scorsi la presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, Maria Carla Gatto, con un comunicato in cui è entrata nel merito della vicenda e ha fornito le spiegazioni del caso: “La famiglia affidataria si è sottratta allo svolgimento del fondamentale compito di accompagnamento, anche sul piano emotivo, del bambino nel percorso di conoscenza e di avvicinamento alla famiglia scelta per lui, avendo autonomamente maturato la convinzione di essere la più idonea ad adottare il minore nonostante la sua differenza di età con il bambino fosse superiore di cinque anni rispetto a quanto previsto dalla legge, circostanza ritenuta in passato dalla stessa coppia pregiudizievole per il futuro del bambino”.
Ma c’è dell’altro: “La volontà adottiva – prosegue la presidente Gatto - non aveva peraltro impedito alla coppia affidataria di accogliere, in un momento successivo, sempre in affido, un altro bambino di età molto vicina, per il quale sarebbe difficile comprendere la diversità di trattamento a lui riservata rispetto a Luca, oltre a dare la disponibilità per l’affido di una neonata di pochi mesi”.
E la continuità affettiva? Ecco perché, secondo il tribunale, è stato necessario non tenerne conto: “Il descritto comportamento non solo tradisce i principi fondanti l’istituto dell’affidamento familiare, ma finisce anche col penalizzare Luca, rendendo nell’immediato inattuabile il rispetto del suo diritto alla continuità affettiva in quanto lo priva, nella nuova fase della sua vita, della possibilità di mantenere rapporti significativi con coloro che nei primi anni di vita lo hanno accolto in affido e che potrebbero continuare a svolgere nel suo interesse un ruolo diverso ma ugualmente importante”.
Rimane l’ultimo appunto. Se il tribunale non riteneva che quella famiglia affidataria avesse le caratteristiche per diventare in via definitiva “la famiglia” del piccolo Luca, come mai sono stati necessari quattro anni per rendersene conto? “Certamente la durata della procedura di accertamento dell’irreversibilità dello stato di abbandono – ammette Maria Carla Gatto - ha prolungato i tempi di permanenza di Luca presso gli affidatari, ma la mancata collaborazione di questi ultimi e la loro scelta di attribuire attenzione mediatica alla vicenda personale del bambino probabilmente renderà più faticoso e meno tutelato il passaggio del piccolo nella famiglia adottiva”. Ora si tratta di capire che esito potrà avere il ricorso e, soprattutto i tempi della decisione. Se fossero necessari mesi, o addirittura anni, per questa nuova valutazione ci sarebbe da chiedersi dove sta il “superiore interesse” del minore.
Le motivazioni del tribunale sono tecnicamente ineccepibili e nessuno può pensare che una decisione tanto “impopolare” sia stata assunta con altri obiettivi se non quelli di assicurare un futuro di serenità al piccolo Luca. D’altra parte, va compreso anche l’atteggiamento della famiglia affidataria che, pur con le contraddizioni messe in luce dalla presidente del Tribunale, per quattro anni ha cresciuto e accudito il bambino, stabilendo importanti legami affettivi. Non conta più nulla tutto ciò? Difficile affermare il contrario, come è difficile però contestare la decisione dei giudici che sottolinea, in punto di diritto, il carattere dell’affido come istituto solidale e temporaneo. I genitori affidatari lo sanno benissimo, anche se talvolta è difficile adeguarvisi. I dubbi rimangono, vedremo gli esiti della vicenda.
Sempre in tema di affido è di grande interesse l’ordinanza 4595 della Cassazione, pronunciata nei giorni scorsi, in merito al valore delle cosiddette “consulenze tecniche d’ufficio” in riferimento a una sentenza del Tribunale di Modena. Cosa dicono i giudici? Non si può valutare la "non idoneità genitoriale ricostruendo il profilo psicologico dalla consulenza tecnica d'ufficio". E ancora: "Non è possibile far discendere dalla diagnosi di una patologia, anche se scientificamente indiscussa e a maggior ragione se dubbia, una presunzione di colpevolezza o inadeguatezza della funzione genitoriale". La consulenza tecnica d'ufficio da cui i giudici della Cassazione avevano preso spunto per la loro decisione, aveva bollato la madre come “ostativa-alienante”. Tradotto in termini più semplici: le sentenze non si scrivono sulla base delle perizie psicologiche. I giudici devono giudicare i fatti e se la diagnosi può aiutare a comprendere, “non può da sola giustificare un giudizio di non idoneità parentale a carico di un genitore". Importante, anzi essenziale, ascoltare i bambini sui racconti delle violenze subite. "L'ascolto diretto del giudice e l'ascolto mediante consulenza non sono equivalenti" Episodi che, in questo caso, sono stati ignorati anche dalla ctu. Così tutto da rifare, si torna in Corte d'Appello a Bologna.
Anche in questo caso una sentenza che lascia ben sperare perché ribadisce quello che da Bibbiano in poi era stato più volte messo in evidenza. Lo “strapotere” delle consulenze psicologiche è una deriva che va fermata. I giudici minorili, prima di assumere decisioni tanto rilevanti come la sospensione della responsabilità genitoriale, devono ascoltare direttamente bambini e ragazzi. Certo, servono giudici preparati e attrezzati al caso. E qui si aprono tutti i dubbi relativi alla decisione della riforma Cartabia di assegnare queste valutazioni al giudice monocratico, non specializzato. Ma ne abbiamo parlato tante volte. La conclusione? Anche in questo caso ci sono due ragazzi, oggi hanno 12 e 15 anni, che dopo essere finiti nel tritacarne della conflittualità di mamma e papà, stanno sperimentando le incertezze e le contraddizioni del nostro sistema di tutela dei minori. Se domani diventeranno due adulti arrabbiati – eventualità che nessuno auspica – sappiamo quello che c’è dietro.