Come “funziona” la cosiddetta diade (coppia) madre-bambino? Lo spiega la teoria dell’attaccamento, che riguarda il funzionamento della relazione madre-bambino nei primi anni di vita, sviluppata negli anni ’60 dallo psicologo, medico e psicoanalista John Bowlby. I suoi studi «sono stati solo l’inizio di un’enorme quantità di scoperte che ancora non si sono diffuse a sufficienza tra le co-protagoniste più importanti di questa relazione: le mamme. Si può dire che questa teoria serve per comprendere meglio non solo cosa accade tra madre e bambino, ma addirittura come si possono porre le basi del cosiddetto “carattere” degli individui, dalla nascita alla vita adulta».
Lo spiega Silvia Da Dalt, educatrice professionale socio-pedagogica, tutor dell’apprendimento e dottoressa in Scienze e tecniche psicologiche, oltre che in Scienze giuridiche. Dal 2006 si è occupata di bambini e preadolescenti in diversi progetti educativi, tra cui il servizio “Spazio ragazzi” presso Casa Moro, Centro per la Famiglia di Oderzo, gestito da Fondazione Moro.
Nel volume “L’attaccamento sicuro” (Edizioni San Paolo), si chiede: «Perché un bambino è più socievole di un altro? Perché uno litiga meno di un altro? Perché un bambino non mangia o è inconsolabile? Non è un caso, non è la genetica (se non in alcuni casi di predisposizione verso patologie a base genetica) a determinare il modo di essere e di relazionarsi di una persona. La mente di una persona nasce dalle relazioni che ha durante l’infanzia». Infatti, precisa Da Dalt, «in base al tipo di accudimento materno, il bambino sviluppa il suo stile di attaccamento che potrà essere: sicuro, insicuro (ambivalente o evitante) o disorganizzato».
La madre che sviluppa un attaccamento sicuro «è solitamente attenta a percepire e interpretare correttamente i bisogni del bambino. Di fronte alle difficoltà concrete e alle fatiche dei primi mesi, mantiene un buon livello di controllo sulle proprie emozioni e riesce a reagire allo stress senza diventare trascurante o aggressiva. Di fronte a eventuali errori, non si perde d’animo e cerca soluzioni anche creative. Non pretende di essere perfetta, ma solo di esserci per il suo bambino, di trasmettere amore e protezione».
Nel piccolo l’attaccamento sicuro migliora «la capacità di costruire relazioni positive e gratificanti, la capacità di fare da solo e autoregolare emozioni intense, di superare momenti di stress e fidarsi di sé, di esprimere le proprie emozioni e comprendere quelle altrui», oltre ad «autostima e autoefficacia, risultati scolastici, sistema immunitario». Quindi «non possiamo più lasciare le scoperte scientifiche nei libri degli addetti ai lavori. Anche perché, a dire il vero, i veri addetti ai lavori sono i genitori! Nei corsi pre-parto si punta soprattutto a dare informazioni sugli aspetti di cura del corpo del bambino, sicuramente molto importanti, ma attualmente non c’è un’informazione adeguata e aggiornata sugli aspetti mentali e psicologici del bambino. Vogliamo costruire un’umanità fatta di persone che stanno meglio emotivamente, psicologicamente e anche fisicamente? La speranza è che non solo i genitori, ma anche l’intero sistema educativo e le politiche per la famiglia possano tenere conto di tutte le scoperte scientifiche che riguardano lo sviluppo dell’essere umano», auspica l’autrice, che si rivolge non solo alle madri, «ma anche a tutti coloro che si impegnano nelle cure verso un bambino nei primi anni di vita».
«Il nostro sviluppo neurobiologico, affettivo, cognitivo è relazionale; il cervello umano, la base dello sviluppo della futura personalità, della capacità di decisione, della capacità morale, artistica, intellettuale o tutto ciò che definisce gli umani come più evoluti e raffinati rispetto ai più evoluti mammiferi e primati, dipende da come veniamo accuditi nei momenti critici della crescita, specie dei primi due anni di vita», evidenzia nella prefazione Clara Mucci, docente di Psicologia clinica presso l’Università degli Studi di Chieti e psicoterapeuta a orientamento psicoanalitico, peraltro autrice di numerosi studi su psicoanalisi e letteratura. E fa notare: «Ognuno di noi reca le tracce di quanto accudimento sensibile e attento, pacato e assiduo, ha ricevuto, o di quanta trascuratezza o addirittura violenza ha subito, tanto più grave quando avvengono nei momenti più delicati dello sviluppo e soprattutto se a causa di un caregiver, di un genitore che dovrebbe essere preposto alle nostre cure. Ma il genitore può essere depresso, malato, più avere dipendenze gravi (alcol, droghe e altre sostanze), può avere a sua volta avuto cure insufficienti, essere traumatizzato da altri gravi eventi della sua vita, lutti, guerre, perdite gravi, e quindi non essere nella situazione più congeniale ad accudire con continuità, sensibilità e dedizione, in quel momento».
Quindi, osserva, «il nostro cervello non si forma da solo, né si forma grazie allo schermo di un cellulare o ad altri mezzi digitali con cui il bambino può essere intrattenuto, a volte perfino con la convinzione che questi mezzi artificiali aiutino la crescita».