undefined - Stefania Prandi
Clea viene dalla Romania e vive in Basilicata da 20 anni. Raccoglie fragole. Ha due figlie, che ora hanno 25 e 15 anni. La più piccola, quando lei è partita, aveva solo un anno. Ora non vuole più parlarle e non la vede da due anni. “Non mi diceva mai che mi voleva bene. Era arrabbiata con me per via della lontananza. L’ultima volta che l’ho sentita al telefono le ho detto: ti amerò per sempre. Non è facile, dentro muoio. Piango in casa, da sola, per ore. Poi mi infilo nella doccia, mi vesto, mi pettino, mi trucco, esco e fingo di stare bene. Anche altre donne con i figli lontani si comportano come me. Siamo sole con il nostro dolore”.
Quando Irina è partita per venire a lavorare nei campi del Sud Italia, sua figlia aveva 12 anni. Le chiedeva perché l’avesse affidata alla nonna, soffriva il distacco. Appena possibile, allora, Irina prendeva il pullman per tornare da lei. E il suo viaggio durava due giorni. Aleksandra è stata in Italia quando le sue figlie avevano 3 e 4 anni. Ogni notte si disperava mentre era lontana. Il dolore del distacco non si placava ed era così forte da impedirle di dormire. Lo stress le faceva cadere i capelli e le sopracciglia. Per trovare un po’ di tregua, prendeva dei tranquillanti.
Darina ha 38 anni e 3 figli. È stata lontana dal suo Paese per 12 anni. Il dolore più grande l’ha provato quando, tornando a casa per la prima volta, il figlio minore non l’ha riconosciuta. “Non riusciva a capire chi fossi, stava accanto alla nonna, non voleva saperne di me”. “A Nina sono mancata una vita intera. Mi rimproverava per tutte le mie assenze. Mi diceva “il denaro può comprare tutto ma non l’amore”” ricorda Zina, che è arrivata in Italia per la prima volta a 36 anni. “Ma se non fossi partita, che ne sarebbe stato della mia famiglia? Con che soldi avrei assicurato ai miei figli un futuro?”.
Clea, Irina, Aleksandra, Darina, Zina…
A raccogliere le loro storie è Stefania Prandi, giornalista e fotografa, che in Le madri lontane - reportage narrativo appena pubblicato dalla casa editrice People - affronta il tema del caporalato e dello sfruttamento lavorativo da una prospettiva molto particolare. Le protagoniste del suo libro, infatti, sono donne che, partite dalle zone rurali più povere dei Paesi dell’Est Europa, arrivano in Italia - ma anche in Spagna e Francia - per lavorare come braccianti, spesso in un chiaroscuro di grigi e neri, per la raccolta di frutta e verdura.
E le loro storie oltre a parlarci di fatica, privazioni, ingiustizie, abusi, portano alla luce anche un sacrificio intimo e personale che tocca la sfera degli affetti. Un dolore profondo e privatissimo. Un grido di sofferenza silenzioso eppure onnipresente.
Stefania Prandi, infatti, esplora con delicatezza la realtà durissima delle madri-migranti che, per garantire un destino migliore ai propri figli, vivono per anni lontane da loro. Partono in cerca di un lavoro quando i bambini spesso sono ancora piccolissimi. Li affidano alle cure di chi resta, un marito, una nonna, una sorella o un fratello maggiori...
Stefania Prandi - Chiara Luxardo
Quando possono, tornano, magari anche solo per pochi giorni, per evitare che quel sottile legame materno non si spezzi del tutto. Poi ripartono, portando con sé un carico di sentimenti pesantissimo da sopportare.
E lasciando nei loro figli - gli “orfani bianchi” come vengono spesso chiamati o “left behind” (letteralmente abbandonati o dimenticati, n.d.r.) come li ha definiti l’Unicef - emozioni altrettanto faticose da affrontare.
“Senso di colpa, dolore profondo per l’assenza, timore e preoccupazione per ciò che potrebbe accadere mentre sono lontane. Sono questi gli stati d’animo che accomunano queste donne. E che spesso inducono insonnia, disturbi d’ansia, stress da isolamento, stanchezza cronica. Per descrivere la condizione di estremo disagio dovuta all’aver forzatamente delegato ad altri la propria maternità, nel 2005 due psicologi ucraini hanno coniato la definizione “sindrome Italia”, che ben si adatta non solo alle badanti ucraine, ma anche alle braccianti che arrivano da Bulgaria, Romania, Polonia.
E molte di loro ne portano i segni anche anni dopo, una volta tornate a casa. Si svegliano la notte pensando a come hanno fatto a sopportare tanta sofferenza” racconta Prandi.
“Nei bambini che restano, i sentimenti sono ambivalenti. Da un lato, c’è il senso di disperazione per il distacco, il dolore per l’assenza, la tristezza per la solitudine, che a volte si trasformano in rabbia nei confronti delle mamme. Dall’altro, una profonda consapevolezza e una grande gratitudine per tanti sacrifici, che però possono generare anche un senso di responsabilità difficile da gestire nella relazione madre/figlio”.
I dati di una recente ricerca di Save the Children Romania parlano di oltre mezzo milione di minori rumeni (536mila per l’esattezza, circa il 14 per cento del totale) che nel 2022 aveva almeno un genitore all’estero. Fra di loro, 184mila erano del tutto senza cure paternali dirette, con entrambi i genitori espatriati. I bambini “senza mamma” erano 155mila.
A partire, per l’appunto, sono soprattutto le donne; le loro prime tre destinazioni sono l’Italia (21 per cento), la Spagna (17 per cento) e l’Austria (12 per cento); il settore agricolo assorbe il 20 per cento delle migranti.
Lasciare il proprio Paese, la propria casa e, soprattutto, i propri figli è una scelta dolorosissima, eppure necessaria, perché in patria il lavoro non c’è oppure è pagato così poco da garantire a stento la sopravvivenza. E allora, come dice Maria, arrivata in Italia dalla Romania con una bambina ancora piccola, “se devi mangiare non hai alternative: l’amore non passa dallo stomaco”.
Sullo sfondo di una condizione economia difficile, nelle storie di queste donne si intrecciano altri fili dolorosi, che raccontano di una società dove non sempre i mariti, i padri, sono presenti.
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“Non si può generalizzare, certo. A volte anche gli uomini partono con le loro compagne e questo forse in parte attenua un po’ il senso di solitudine e il dolore per la lontananza dai figli. Altre volte, invece, partono da soli, verso Paesi diversi e cercano un impiego nell’edilizia” riprende Prandi.
“Nelle zone rurali più povere e depresse, però, molti uomini, anche giovani, cadono vittime dell’alcol e non sono più in grado di lavorare. E allora tocca alle donne farlo”.
Eppure, in una cultura patriarcale basata sull’idea che debba essere il padre a mantenere la famiglia, come ben spiega Anca Stamin, project manager di Save the Children Romania, “molte volte le madri che lavorano all’estero vengono rimproverate dai membri della comunità per aver lasciato i loro figli”.
Così, oltre a dover gestire il senso di colpa e la nostalgia, le donne migranti si ritrovano a lottare contro questa percezione pubblica del tutto distorta. E ancora, devono fronteggiare minacce, ricatti, molestie e violenze. Ricevere salari inferiori a quelli degli uomini. Affrontare troppo spesso un degrado nella vita quotidiana che a volte arriva addirittura a impedire loro di avere accesso ai servizi igienici quando hanno il ciclo mestruale. O, se decidono di tenere con sé i loro bimbi ancora piccoli, dove non ci sono strutture pubbliche che possano accoglierli, a portarli nei campi, facendoli dormire in culle improvvisate nelle cassette di legno per la frutta.
Ciò che colpisce di più nei racconti di queste “madri lontane”, però, è soprattutto il coraggio, che le spinge a partire andando spesso incontro all’ignoto. La determinazione, con cui lottano per strappare i figli alla povertà e garantire loro un destino diverso, la possibilità di studiare, di costruirsi un futuro sereno e dignitoso. Lo spirito di sacrificio, che le porta a trascurare la loro felicità, la loro salute, a volte la loro stessa vita, per il benessere di chi hanno lasciato a casa.
La capacità di mantenere comunque, nonostante il distacco e la lontananza, un legame profondo con i loro figli. Un legame più potente di ogni difficoltà. Perché è proprio la maternità la forza di queste donne. E il valore che le attribuiscono ha tanto da insegnarci.