mercoledì 10 luglio 2024
Le parole del salmo 71,9: "Nella vecchiaia non abbandonarmi", tema della prossima Giornata mondiale dei nonni, aiutano a riflettere anche sulle piccole strategie da adottare nelle nostre relazioni
Cari nonni, ecco come non sentirsi abbandonati

Foto Siciliani

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L’invocazione del Salmo: “Nella vecchiaia non abbandonarmi”, tema della quarta Giornata mondiale, per la Chiesa, dei nonni e degli anziani che sarà celebrata domenica 28 luglio, esprime il timore di questa età per una condizione che oggi risulta particolarmente diffusa e preoccupante.

Una paura, che i nonni ben conoscono, presente peraltro anche nell’altro estremo della vita, quella bambina.

L’abbandono, causa ed effetto della privazione di relazioni tra pari e con le altre generazioni, non è solo dovuto a fattori “esterni”: familiari, sociali, di politiche di welfare. Ma dipende anche dalla difficoltà personale a saper generare nel corso della vita, e mantenere nella vecchiaia, buone relazioni, resilienti all’abbandono. Le più importanti capacità da esercitare allo scopo si comprendono pienamente da anziani, ma si apprendono, fin da piccoli, in particolare dai nonni, che grandi responsabilità hanno nel trasmetterle, testimoniandole, ai loro nipoti. Ma le esperienze umane di abbandono, dolore/solitudine che ne consegue e quelle dell’”essere in relazione”, assumono consolazione, fondamento e senso compiuto se “ancorate” al trascendente della “Teofania della Relazione” che è in Gesù Uomo/Dio: nella sua Vita, Morte e Resurrezione.

Le parole del salmo 71,9: “Nella vecchiaia non abbandonarmi” esprimono l’umano timore e il rischio dell’abbandono e della solitudine, ma anche la speranza del sostegno e della vicinanza per non incorrervi o almeno non cadere nei suoi effetti di depressione, mancanza di senso e prospettiva di vita.

Come anziano ancora attivo, ma con gli acciacchi dell’età e alcune patologie che i medici dichiarano “ben compensate”, almeno al momento, con i farmaci, mi trovo nella condizione di essere particolarmente sensibile a questa invocazione. Anche perché intorno a me osservo come il rischio di abbandono risulti, oggi, particolarmente rilevante per anziani e vecchi, quando diventano parzialmente o totalmente non autosufficienti.

Limitandoci al solo nostro Paese, si può osservare come, a fronte del sensibile, negli ultimi decenni, incremento della speranza di vita, non si riscontri un altrettanto soddisfacente aumento della sua qualità. Quasi quattro milioni di anziani necessitano di assistenza in quanto parzialmente o totalmente non autosufficienti. Di questi uno su tre vive da solo. Il “clima” sociale ed economico è caratterizzato dalla cultura dello “scarto”, per usare parole di papa Francesco, nei confronti della fisiologica condizione di fragilità, che, in nome dell’efficienza e produttività, produce marginalità ed esclusione. Le politiche pubbliche, nonostante rinnovate attenzioni normative e sociali grazie anche ad un importante contributo della Chiesa, offrono un aiuto ancora insufficiente. Si consideri, infatti, che oltre due milioni e mezzo di anziani bisognosi di aiuto sono assistiti esclusivamente dai familiari o si trovano di fatto in gravi situazioni di necessità, fino a vere e proprie forme devastanti di “eutanasia da abbandono”.

L’abbandono, non è semplicemente mancanza o perdita di occasioni di aiuto e sostegno per soddisfare propri bisogni materiali, psicologici e spirituali, quanto piuttosto privazione di “relazione”, a partire da quella con i più “prossimi” fino all’”oltre” della trascendenza, con Dio.

Il “non abbandonarmi alla tentazione” del Padre Nostro può essere inteso come tentazione al “peccato” quale rinuncia alla relazione con gli altri e con Dio attraverso Gesù (“Nessuno ha mai veduto Dio; l’Unigenito Figlio, che è nel seno del Padre, egli stesso ce l’ha fatto conoscere” - Gv 1,18).

La carenza/assenza di legami umani, ma anche fondati sull’ “Oltre” è amara compagna di molte/troppe vecchiaie vissute con dolore, solitudine, caduta della stima di sé, senso della vita e speranza. Ma l’esperienza dell’abbandono e della solitudine che ne è la più dolorosa conseguenza, accompagna l’umanità, pur in forme e con intensità diverse, fin dall’ età infantile.

Gli effetti dell’abbandono della relazione sono devastanti, come hanno evidenziato gli studi sui bambini molto piccoli ospedalizzati. Peraltro, è ormai dimostrato che solo la presenza del tu, attraverso relazioni primarie con la madre e le altre figure significative, permettono l’instaurarsi dell’io e della percezione del sé.

Se come anziano temo l’abbandono, come nonno ne conosco la paura nei nipoti e cerco di rassicurarli. Conservo, con tenerezza, il ricordo del ripetuto saluto quotidiano della mia prima nipotina quando la lasciavo alla scuola dell’infanzia. Lo recitava quasi come un rito, più per rassicurare sé stessa che per pormi una domanda: “Se non viene mamma, venite tu o nonna a prendermi?”. E ancor oggi, quando non ci sono i genitori con loro, mi risuonano le parole della piccola Benedetta che chiede: “Ma voi vi fermate fino a quando non arriva mamma?”. Come nonno, però, non solo rassicuro i nipoti piccoli dalla paura dell’abbandono, ma vivo anche il mio e quello dei più grandicelli. Infatti, se da un lato considero con tristezza l’inevitabile diminuzione delle forze che pian piano non mi permetteranno più di essere di aiuto e sostegno ai nipoti, anzi, dall’altro assisto al loro allontanarsi, a partire dall’adolescenza, dopo anni di intenso rapporto perché piano piano scoprono e si incamminano verso un mondo nuovo e diverso. E penso ad Agnese, la prima adorata nipote di dieci anni, che mi dice di non poter venire con i nonni in montagna, causa “pigiama party” di fine settimana a casa di una amica. Giulia, la seconda, è venuta e volentieri, ma fino a quando? E i due più piccoli che adesso ti corrono incontro gridando “i nonni, i nonni” e subito vogliono giocare con noi, fino a quando lo faranno?

Ma, come raccontano i molti nonni e nonne che conosco e hanno nipoti adolescenti o ormai adulti, il legame e la relazione, se instaurati da piccoli, quando si “affidavano” a noi, rimane anche se si trasforma profondamente. Così spesso gli adolescenti si confidano con i nonni e da giovani sentono il desiderio di “restituire”, come quella studentessa che aveva piacere di accompagnare il vecchio nonno, che l’aveva accudita da piccola e ora costretto sulla carrozzina, a fare lunghe passeggiate o gite in auto.

La relazione profonda non abbandona, ma diventa diversa, anche radicalmente. Non si nega, ma si trasforma. Spesso siamo portati, non a torto, a considerare l’abbandono quale effetto di responsabilità altrui, siano esse familiari che sociali o di politiche di welfare. Ma certo dipende anche da noi saper generare e mantenere buone relazioni resilienti all’abbandono.

L’importanza di ciò lo si coglie pienamente da anziani sia a causa della precarietà e fragilità propria dell'età che fa esperire la paura e il rischio dell’abbandono, sia per la memoria dell’esperienza di vita passata che fornisce significativi insegnamenti su come coltivare i legami e evitare errori che li possono danneggiare o distruggere.

Ma è anche presente nei giovani con un ritorno, registrato da indagini e ricerche, di sensibilità e attenzione alle relazioni umane dirette di coppia e di gruppo “face to face”. Ciò, forse, anche come risposta al senso di vuoto e solitudine generato dall’individualismo ed esasperazione dell’io e reazione al dominio dei “social”. Peraltro, la capacità a realizzare e coltivare relazioni autentiche e profonde si apprende a partire dalla più tenera età attraverso l’esperienza concreta di modalità e stili di comunicazione esperiti con persone significative quali genitori, nonni, educatori, che ci rendono in grado di trasferirli ed esercitarli, a nostra volta, verso gli altri.

Queste riflessioni, come nonno e anziano, mi pongono allora alcune domande di assunzione di responsabilità personale che penso possa essere estesa anche agli altri “colleghi” di età. Cosa dovrei insegnare ai miei nipoti come nonno, ma ancor più e meglio testimoniare nei miei comportamenti con loro e con gli altri, miei coetanei compresi, perché possa aiutarmi e aiutarli a sviluppare relazioni resilienti all’abbandono e alla solitudine?

Una buona relazione, caratterizzata da un legame di qualità forte e maturo, deve essere in grado di “resistere” sia ad un “fisiologico” deterioramento che agli effetti negativi di una possibile fine. Sulla base dell’esperienza di anziano e nonno penso siano allo scopo importanti alcune condizioni. Innanzitutto, la reciprocità che esclude rapporti asimmetrici di prevaricazione oppure assistenziali di donazione/dipendenza. Nella cultura greca classica le relazioni si definivano appunto come filia (reciprocità), eros (desiderio di dominio e possesso sull’altro), agape (oblazione senza ricompensa). Ritengo che la filia sia la forma più adeguata e nel contempo più possibile di relazione, per la condizione umana.

La reciprocità comporta, per essere efficace, lo scambio il più possibile equilibrato di risorse, competenze e contenuti tra loro anche diversi e utili al soddisfacimento dei bisogni dei membri della relazione. Un rapporto quindi risulta tanto più valido quanto più è ricco e cioè i suoi membri possono scambiare capacità, risorse e competenze diverse. Ricchezza e flessibilità permettono al rapporto di evolvere con il mutare delle condizioni di contesto e dei singoli membri.

Come ogni aspetto ed esperienza della vita anche le relazioni sono soggette ad evoluzione e cambiamento. Spetta a noi coglierne la sostanza valorizzando gli aspetti positivi e neutralizzando al massimo quelli negativi.

Poiché ogni rapporto può, per vari fattori endogeni ed esogeni, essere soggetto all’estinzione, psicologicamente vissuta come abbandono, gli effetti negativi si controllano attraverso la presenza di una rete plurale di relazioni, che assumono funzioni sostitutive. Per questo ogni relazione deve essere certo vissuta con responsabilità, ma mai venire assolutizzata, bensì sempre considerata parziale e quindi sostituibile in caso di lutto o abbandono.

Queste considerazioni pratiche mi fanno venire alla mente gli insegnamenti della mia nonna materna, credente e conduttrice di una attività commerciale in un piccolo paese agricolo del torinese. Mi ricordava sempre la responsabilità personale quando mi lamentavo di qualche disavventura, compresi reali o presunti abbandoni: “Aiutati che il ciel ti aiuta”. Ma spesso la realtà che ci circonda è più forte delle nostre intenzioni e desideri. E allora ancora mi torna alla mente l’insegnamento della mia altra “nonna per adozione”, la zia Anna: “Sia fatta la volontà di Dio”. O meglio ancora: “Come Dio vuole”.

L’esperienza umana dell’abbandono e della relazione come sopra ho cercato di tratteggiare trova il suo fondamento e senso in una “Teofania della Relazione” che è: Vita, Morte e Resurrezione di Gesù Uomo/Dio. Sulla Croce il grido: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato “ (Mt 27,46; Mc 15,34) esprime la umanissima disperazione nel dolore.

Ma prima, nella solitudine del Getsemani, all’umanissimo: “Padre se vuoi allontana da me questo calice!” fa da contraltare il riconoscimento che il proprio io è parte di un disegno che lo trascende: “Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà (Lc 22,42)”. Gesù Figlio/Uomo sa che il Padre/Dio non abbandona mai. Come descritto dal Vecchio Testamento è soggetto all’ira e punisce, ma sempre dialoga e perdona. Non è mai solo, ma sempre “in relazione” con l’Uomo e il suo creato.

“Non abbiate paura, voi cercate Gesù di Nazaret, il crocifisso, è risuscitato, non è più qui” (Mc 16,6).

La Resurrezione testimonia che, se l’abbandono esiste, fa parte dell’esistenza e attraversa dolore e morte, non è mai definitivo e viene superato da una nuova Relazione.

Infatti, nella Pentecoste, Gesù risorto, di fronte allo smarrimento degli apostoli dopo la sua morte, non abbandona, ma trasforma radicalmente la Relazione da una “dipendenza” dal Maestro ad una “presenza accanto”: “...io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Affida loro una missione, che continua e diffonde la sua Parola, garantita e resa possibile da una presenza trascendente: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi...Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 19). “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15).

Nella nostra Giornata, splendida e appropriata risulta allora la Preghiera per noi Anziani e nonni, che ci richiama alla responsabilità personale nel mondo e per il mondo a partire da chi ci è più vicino (nipoti e loro genitori), fondata e resa possibile dall’ oltre il mondo, della trascendenza.

Signore, Dio fedele, Tu che ci hai creato a tua immagine, tu che non ci lasci mai soli, e ci accompagni in ogni stagione della vita, non abbandonarci, prenditi cura di noi e concedici, ancora una volta di scoprirci figli tuoi”. In nome di questo profondo legame di figli la preghiera diventa invocazione: “Il tuo spirito di amore ci conformi alla tua tenerezza e insegni anche a noi a dire: - Non ti abbandonerò - a chi incontriamo sul nostro cammino”.

Nonno Attivo​

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