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La morte di un bambino di dieci anni è la perdita più innaturale che si possa immaginare. Daniela Zuccolin, insegnante milanese, madre di Lorenzo, morto per un assurdo incidente mentre nuotava, narra il suo viaggio attraverso il dolore, la memoria e il lento processo di elaborazione del lutto. La scrittura, inizialmente valvola di sfogo, si trasforma in un ponte tra il passato e il futuro, in un modo per sopravvivere al vuoto e restituire senso a una vita spezzata e diventa La morte è azzurra. Diario di una madre (San Paolo). Attraverso una narrazione intima e sincera, Daniela esplora il tabù della morte, la fragilità delle relazioni di fronte alla perdita e la necessità di nominare il dolore per affrontarlo. La sua è una testimonianza autentica che non offre risposte semplici, ma parla al cuore di chiunque abbia vissuto una perdita o voglia comprendere l’insondabile forza dell’amore, capace di resistere anche oltre l’assenza. Il libro – di cui anticipiamo qui uno stralcio – è una testimonianza forte di come può essere talvolta la vita.
Ho sempre pensato che si finisca di pensare a sé stessi, in maniera così autoreferenziale, come fanno – come è giusto che sia – i bambini e poi gli adolescenti e poi i giovani, non appena si diventa padri e madri.
Allora togli te stesso dal centro del mondo e ci metti i tuoi figli, al centro: gioisci non solo per te stesso ma anche per loro, di loro, e vivi per loro, esulti anche per i loro successi, ti struggi per le loro difficoltà, loro campeggiano al centro della scena, si stagliano sullo sfondo, non più solo tu.
Per gli uomini forse è diverso, non sarà esattamente così, ma per noi madri lo è. Almeno per me è successo così.
Non significa non esistere più in quanto singolo, non significa annullarsi o non trarre più soddisfazioni da altri campi, quali la propria professione o l’immagine che si ha di sé. Significa solo spostarsi dal centro, mettersi un po’ a margine, relativizzare la propria posizione, non sminuirla, no: ma relativizzarla.
Questo ho sempre pensato, ma adesso devo riconsiderare tutto. La vita è questo, è evoluzione; non a caso gli anziani sono saggi, loro lo fanno da anni, riconsiderano le loro convinzioni, lo hanno già fatto. Non solo non siamo al centro, ma nemmeno ai margini: facciamo parte, tutti assieme, dello sfondo, non siamo quasi niente, poco più che niente. La realtà è questa, la vita è un soffio ed è inutile fare finta di non saperlo.
Che lezione severissima e dura: imparare la propria finitezza, i limiti, deporre il senso di onnipotenza. Non ci sono più sicurezze né punti di riferimento: la realtà della perdita di Lorenzo lo ha mostrato con brutalità. Ero troppo fortunata, avevo troppo, avevo tutto: salute, genitori fantastici, benessere, marito e non uno, non due ma tre figli, belli, sani, e bravi a scuola. Tutto questo era provvisorio.
Credevo ciecamente nelle mie capacità, davvero pensavo di avere il controllo. Invece avevo solo avuto una vita protetta; ora mi rendo conto di non essere immune da situazioni che vanno al di là delle mie capacità di controllo. Semplicemente non ne ero al corrente, e non ho parole adesso che sappiano esprimere il mio smarrimento.
Devo accettarmi così adesso, ferita, sconfitta, delusa, sofferente.
“La vedi quella signora?”.
“Chi, quella?”.
“Sì, quella, sai cosa le è successo? Ha perso un bambino, un figlio di dieci anni, annegato in una piscina”.
So che le mie nuove conoscenze, nella nuova città, dopo un po’ vengono informate su quello che ci è successo. Non importa. È vero, è proprio così: io sono la madre che ha perso il bambino.
Sono come le madri dei ragazzi morti durante gli incidenti di cui si legge sui giornali, schianti in autostrada, incendi, terremoti, cataclismi; o durante tutti i conflitti di cui è costellata la storia. Madri che non hanno visto tornare i loro ragazzi. Non soffrono forse come me, loro? Soffrono esattamente come me, solo che non tutte ne hanno scritto. Sono la madre di quei bambini morti di cui si legge sui giornali, e si pensa: “Meno male che a me non è capitato”. Sono quella madre lì. Siamo in tante.
Però è diverso, questa tragedia non è capitata, come una guerra, come un incidente stradale… Io ero lì, io avrei potuto aiutarlo, io avrei dovuto vederlo e soccorrerlo. Diverse le circostanze, uguale l’assenza e il dolore.
Devo accettare la realtà, staccarmi da ciò che è perduto, tollerare la mia debolezza, accettare la perdita, la sconfitta: non sono onnipotente, non sono al centro, devo guardare in faccia la caducità. Non sono brava, non sono stata brava, non sono perfetta nemmeno un po’, non sono stata in grado.
Guardo ogni giorno madri con bambini per mano e penso: ecco una brava madre, ecco un bambino che si trasformerà in un uomo.
Qual è il compito di una brava madre, se non proteggere i propri figli?
Certe mattine il senso di colpa mi divora. So perfettamente che è destino dei genitori non poter più proteggere i propri figli a un certo punto, quando entrano nell’adolescenza, vanno fuori di sera, addirittura di notte. Le conoscenze saranno buone o cattive? E in una città come Milano, o come Abu Dhabi, grande… che fanno di notte? Chi incontrano? C’è il pericolo della perdita di controllo per l’alcol dei cocktail, per le droghe leggere che fumano tutti. Bisogna solo sperare di aver insegnato la moderazione, il controllo, ed essere fortunati, aspettare un messaggio che dica “sto tornando”, anche se sono le 2.00 del mattino. Ma a 10 anni, a 10 anni sì, avrei dovuto proteggerlo dal pericolo delle apnee, e non lo ho fatto. La responsabilità è mia, precisamente mia, non può essere una semplice casualità. Ho esagerato, perché cambiare paese? Perché cercare altre esperienze? Avevamo già tutto. Ho sbagliato, tutto è sbagliato, niente è giusto. Indietro non posso tornare. Come prima, mai più. Continuo a pensare con incredulità a quello che è successo: la perdita è la verità (…).
Non siamo noi al centro, non io, non lui, nessuno. Siamo tutti insieme, come su una grande nave, nessuno è importante di per sé. Lo avevo intuito ma non capito fino in fondo.
L’idea che ci spinge a distinguerci è fuorviante, non siamo onnipotenti, siamo nudi di fronte all’imprevedibile, devo mettermelo bene in testa.
Nel fondo di ciascuno di noi c’è questo sogno di poter gioire di un’esistenza piena, completa, senza rischio, senza pena, senza disfatta, senza morte. È un’illusione: essere adulti significa anche fare esperienza dei propri limiti e rinunciare alla nostra pretesa di egemonia, senza voler scappare dalla legge della morte. Devo accettare un destino impersonale e tragico, comune a tutti.
Devo smettere di sentirmi vittima di un’ingiustizia fatta a me: chi sono io? (…).
Sì, io lo avevo pensato, credevo in un Destino, che con me era stato particolarmente generoso… Ora capisco bene che non è vero. Era un’illusione quel benessere, quella gioia priva di sospetto. È questo l’insegnamento? Devo pensare che sia questo l’insegnamento? Oppure nemmeno questo: non tutto accade per uno scopo e non c’è niente su cui speculare né da imparare.
Forse ha davvero ragione chi sostiene che non ne valga la pena, che siamo in caduta libera verso il nulla: vecchiaia, malattia, morte (…).