mercoledì 9 aprile 2025
In vista della Giornata mondiale di domani, il grido di una malata: siamo lasciati troppo soli, io riesco a reggere con questa patologia complicata solo grazie all’aiuto di mia madre che ha 73 anni
«Mio figlio è nato il giorno in cui ho scoperto il Parkinson. Avevo 34 anni»
COMMENTA E CONDIVIDI

«Era luglio e quel giorno Valeria stava discutendo la sua tesi di laurea. La ascoltavo, felice e orgogliosa. Il mio sguardo, però, si era fissato sul suo piede sinistro. Aveva le gambe accavallate, sotto la sedia, e io vedevo quel piedino che ballava in continuazione. Sarà la tensione nervosa del momento, pensavo. Eppure, quel movimento mi metteva a disagio... Qualche anno prima, intorno ai suoi 20 anni, ci eravamo accorti che aveva un piccolo tremore a una mano. Quasi impercettibile, eppure presente. Ed era spesso molto stanca. Gli accertamenti avevano evidenziato un problema alla tiroide e le era stata prescritta una terapia. Poi, dopo la laurea, aveva cominciato a camminare in un modo strano, “sgangherato” come lo definivo io, strascicando i piedi, dicendo che le davano dolore. Non ne parlava quasi mai, però. Forse non aveva ancora consapevolezza di quello che avrebbe potuto essere, forse non voleva preoccuparci.

E così, era passato altro tempo. Fino a quella mattina di maggio, devastante. “Alzati Valeria, sono le 10.00”. La chiamavo da un po’, senza risultato.

Entrata in camera, l’avevo trovata nel letto che piangeva, in un bagno di sudore. “Non riesco a muovermi mamma, non riesco”. E in effetti, era rigida come un blocco di marmo. Con mio marito l’avevamo portata al Pronto Soccorso, dove avevano attribuito l’evento a un forte attacco di panico e suggerito un percorso psichiatrico. La situazione, però, sembrava complicarsi sempre di più. E così, si susseguivano visite e consulti. Fino a che non siamo arrivati da un neurologo. E lì c’è stata la sentenza: Valeria aveva il Parkinson. In una forma genetica che si trasmette in linea femminile e di cui io e mio marito siamo portatori sani».

Nella voce di Daniela, 73 anni, c’è la determinazione di una donna che sa come prendersi cura degli altri. E ancor di più, c’è l’amore di una madre che per sua figlia - che ha compiuto 50 anni lo scorso ottobre - è una presenza discreta e delicata eppure fondamentale. Ci sono anche tante emozioni contrastanti, però, con cui convive ormai da tanti anni. Pensieri e timori, dubbi e speranze, preoccupazioni e desideri. Un’altalena emotiva che condivide con tante altre persone che, come lei, si sono ritrovate nel ruolo di caregiver. Un ruolo inatteso, che non si sceglie ma che modifica profondamente la vita.

Venerdì, Giornata mondiale del Parkinson - istituita per aumentare la consapevolezza su questa malattia neurodegenerativa e raccogliere fondi per la ricerca scientifica - la Fondazione Limpe per il Parkinson ETS (www.fondazionelimpe.it), in collaborazione con la Confederazione Parkinson Italia, ha condotto un’indagine proprio sui caregiver. E i risultati sono sconfortanti: il 70 per cento degli intervistati è solo e poco supportato. Molti hanno dovuto lasciare il lavoro; quasi tutti convivono con una stanchezza cronica; pochissimi hanno potuto beneficiare di una formazione adeguata; gli altri, si affidano a risorse personali, alla buona volontà se non all’improvvisazione…

«Per certi aspetti, mamma è una caregiver “atipica” perché ora noi non viviamo insieme. Io riesco comunque ad avere una mia indipendenza e a gestire molte cose della mia vita quotidiana” sottolinea Valeria, che è mamma, divorziata, di un ragazzino di 15 anni e divide la sua giornata fra il lavoro come bibliotecaria, la passione per la scrittura e l’impegno nel volontariato. Nella mia vita, però, lei è un punto fermo imprescindibile. Un supporto concreto in quelle incombenze pratiche che per me sarebbero troppo pesanti da gestire. E una presenza emotiva, di condivisione, che sa darmi grande sicurezza».

Il percorso di Valeria per lungo tempo è stato in salita, spesso accidentato. I primi segnali della malattia, seppur difficili da decifrare, proprio per la sua giovane età, si sono manifestati quando aveva all’incirca 24 anni. La diagnosi, però, è arrivata solo una decina d’anni dopo. Valeria era sposata da poco e pensava di avere tutta la vita davanti a sé per realizzare i suoi sogni. Soprattutto quello di diventare mamma.

«La malattia ha di colpo cambiato tutte le carte in tavola. A cominciare proprio dal mio desiderio di un figlio. La neurologa mi disse subito che non avrei potuto portare avanti contemporaneamente la terapia e la gravidanza. E che non avrei potuto aspettare più di un anno prima di iniziare le cure. Così Lorenzo è nato esattamente dieci mesi dopo quel 23 maggio 2009. Il giorno in cui ho avuto la diagnosi di Parkinson».

Paura, sconforto, rabbia. All’inizio sono stati tanti i sentimenti con cui ha dovuto fare i conti Valeria. «Credo fossi soprattutto arrabbiata. Con me stessa, con gli altri, con il destino. Non era colpa di nessuno quello che mi era successo. Eppure, io ero arrabbiata con tutto e con tutti». Anche per Daniela, però, ci sono state, e ci sono ancora, tante emozioni da gestire. Oltre alla preoccupazione e al timore per le conseguenze che la malattia porterà nel futuro di sua figlia, deve combattere con il senso di colpa. Perché in qualche modo si sente “responsabile” per quanto le è accaduto.

Riprende Daniela: «Sono pensieri che non ti lasciano mai. Ci sono la mattina, quando ti svegli. E la sera, quando fatichi ad addormentarti. Quello psicologico è un aspetto di cui bisognerebbe tener conto rispetto ai caregiver. Perché ogni tanto sarebbe davvero utile poter parlare con qualcuno che possa darti un “supporto emotivo competente”, che sappia indicarti la strada da percorrere quando tu sei troppo stanco, troppo abbattuto, per capire dove andare.

E io ho visto situazioni così faticose da essere ormai drammatiche. Anche noi abbiamo bisogno d’aiuto, per poter continuare ad aiutare i nostri cari.

E per continuare ad avere fiducia nel futuro. Nel futuro della ricerca, in cui io ripongo sempre la speranza che possa portare qualcosa di positivo anche per i malati di Parkinson. E nel futuro di mia figlia. Valeria è davvero una grande donna, forte e combattiva. E le auguro che la sua vita possa rimanere così, in equilibrio com’è oggi, fra le difficoltà - che certo non mancano - legate soprattutto al movimento e le possibilità che ha scoperto di avere. Certo, con il passare degli anni la fatica si sente sempre un po’ di più. Ora ci sono cose che mi pesa maggiormente fare, per le quali mi servono più tempo e più calma».

«Della malattia, e di tante cose che ha portato con sé – continua Valeria - avrei fatto volentieri a meno. Come sempre nella mia vita, però, anche in questo caso ho voluto vedere il bicchiere mezzo pieno. E così, nella conoscenza di altre persone che si trovano nella mia stessa situazione, ho scoperto quante opportunità ancora posso avere. Mi sono resa conto di quanto sia importante non chiudersi in sé stessi ma, piuttosto, aprirsi agli altri, stare insieme e condividere sempre nuove esperienze. E ancora, ho sfrondato la mia vita da tante cose inutili, che mi affaticavano. Oggi il mio più grande desiderio è di rimanere autosufficiente il più a lungo possibile. Ho alleggerito i miei rapporti con gli altri soprattutto. Ora vicino a me ci sono solo persone che mi vogliono davvero bene, che sanno starmi accanto anche quando le cose sono un po’ più difficili. Oltre alla mia mamma, con cui ci siamo ritrovate molto più unite, ho tante amiche care. E poi c’è Lorenzo, mio figlio. Per certi versi, siamo cresciuti insieme. Perché io ho cominciato la mia terapia il giorno dopo la sua nascita. E la mia malattia per lui non è mai stata un problema. Sin da piccolo, Lorenzo diceva “io ho la mamma buffa”. E insieme abbiamo sempre messo in conto che tante cose io le avrei fatte in modo diverso dalle altre mamme. Il risultato, però, lo abbiamo sempre raggiunto. Ed è questo ciò che conta davvero».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: