giovedì 28 dicembre 2017
Tra i principali motivi ci sono l’effetto made in Italy, qualità del prodotto, capitale umano competente, flessibilità produttiva, defiscalizzazioni e incentivi, riduzione del costo del lavoro
Sempre più aziende ritornano riportando in Italia le fabbriche
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La volontà di tornare ci sarebbe ma sicuramente è condizionata da un grosso – e non unico – freno, quello del costo del lavoro ancora troppo elevato. Il fenomeno del 'reshoring', ossia del riportare in Italia l’azienda trasferita qualche anno fa in Paesi esteri dove la produzione costava meno, è più che in una fase di avvio.

Secondo una ricerca del consorzio Uni-Club MoRe Back-reshoring dal 2000 al 2015 si sono registrati 120 casi di reshoring, un dato che posiziona il Bel Paese come primo Stato europeo e secondo al mondo per rientro di aziende sul territorio nazionale anche se il fenomeno è cresciuto in maniera costante fino al 2013 per rallentare nel 2014. La maggioranza delle aziende che sono rientrate negli anni precedenti avevano delocalizzato fondamentalmente in Asia e Cina (63%) e in maniera minore in Europa orientale (15%) e occidentale (17%). Analizzando i settori industriali che hanno fatto "un passo indietro" il tessile (19,3%), l’elettronica (13%) e mobili e arredo (13%). Anzi, stando a uno studio di Aldai-Federmanager, sta prendendo piede nonostante vi siano fattori non facili da superare. Il reshoring non è solo un fenomeno del Bel Paese, basti pensare al caso degli Stati Uniti dove il 61% delle aziende americane sta prendendo in considerazione il ritorno delle attività produttive. Così brand prestigiosi come Apple, Google, General Electric e Ford si sono contraddistinte per avere fatto rientrare attività che in precedenza erano state delocalizzate.

La fotografia delle dinamiche della Penisola è basata sull’indagine tra i soci di Aldai-Federmanager sviluppata con Fondazione Politecnico di Milano e Promos, Azienda speciale della Camera di commercio metropolitana di Milano-Monza-Lodi per le attività internazionali. Emerge che tra i principali motivi che sostengono il reshoring ci sono l’effetto made in Italy, difesa dei brevetti, leggi chiare e norme, qualità del prodotto, capitale umano competente, flessibilità produttiva, defiscalizzazioni e incentivi pubblici, innovazione/automazione e riduzione del gap del costo del lavoro. Quest’ultima voce è, invero, all’ultimo posto perché, come si diceva agli inizi, questo fattore, di fatto, resta l’elemento più condizionante per un ritorno in patria. A tal punto che il costo della produzione ancora troppo elevato è stato individuato dal 45% delle risposte come ostacolo principale al ritorno del manifatturiero in un contesto dove appaiono particolarmente rilevanti i costi del lavoro e dell’energia.

Ma tra gli ostacoli sono individuati la burocrazia e l’assenza di manodopera qualificata. Indipendentemente da ciò, le attività maggiormente rilocalizzate riguardano la produzione, il design e la ricerca & sviluppo. Non appaiono ancora così attirati, invece, i settori commerciale e distribuzione/ consegna. Anche perché dall’esame dei fattori che hanno spinto le aziende nostrane al cosiddetto offshoring emergono tre 'driver' forti: il costo – con ricerca di vantaggi in termini di costo del lavoro, prezzo dell’energia, vantaggi fiscali e incentivi statali –; la performance – delocalizzare per accedere a nuovi mercati, per essere più vicini ai clienti e per reagire alla delocalizzazione dei competitori –; le risorse – l’accesso alle nuove risorse strategiche come il personale, le tecnologie e le materie prime –. Si tratta di «un fenomeno degno di attenzione anche se ancora limitato nei numeri», osserva Romano Ambrogi, presidente di Aldai-Federmanager. «Il ritorno in Patria significa preservare le caratteristiche qualitative del prodotto finale».

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