Al ministero dell’Economia ora devono rifare i conti. Fino a sabato scorso il governo pensava di potere salvare il Monte dei Paschi con una ricapitalizzazione di circa 5 miliardi di euro, una cifra vicina a quella dell’aumento che avrebbe dovuto accompagnare il piano di salvataggio privato della banca più antica del mondo. Invece, come ha chiarito la Banca centrale europea scrivendo direttamente al ministero dell’Economia lunedì, adesso la ricapitalizzazione che serve a Mps è di 8,8 miliardi di euro, cioè superiore del 66%.
L’inaspettato cambio del “conto” di Francoforte ha una sua logica. Finché si ragionava nella prospettiva del salvataggio privato su cui la banca, con il forte sostegno del governo, ha lavorato dall’estate scorsa, 5 miliardi di euro erano considerati sufficienti a ricostruire il capitale che veniva bruciato dalla cessione a sconto di 27,7 miliardi di euro di sofferenze lorde. Il salvataggio privato elaborato dal manager Marco Morelli, però, non c’è più: nessuno, nemmeno il fondo del Qatar, si è mostrato interessato a mettere soldi nel Monte dei Paschi. A quel punto la Bce ha riaperto il dossier di Siena guardando i numeri da un’altra prospettiva. Il punto non è più quanto capitale serve per coprire la svalutazione delle sofferenze, ma quanto denaro occorre alla banca toscana per resistere a eventuali nuovi choc con il presupposto che nel bilancio ci sono ancora 45 miliardi di crediti problematici. Al Montepaschi è stato applicato lo stesso metodo che era stato adottato per la crisi delle banche greche: la Bce chiede che, in uno scenario di choc, i coefficienti patrimoniali Cet1 e Total capital ratio di Mps restino rispettivamente sopra l’8 e l’11%.
Il costo complessivo per il Tesoro, che ieri ha ribadito l’adeguatezza dei 20 miliardi stanziati per «far fronte a tutte le esigenze di intervento che dovessero emergere dalle situazioni attualmente sotto osservazione», dovrebbe essere di circa 6,5 miliardi di euro. Il primo passo per arrivare a 8,8 miliardi è la conversione in azioni dei 4,2 miliardi di obbligazioni subordinate, (che a differenza di quelle tradizionali fanno parte del capitale di garanzia). A quei 4,2 miliardi ne vanno aggiunti 4,6 “freschi”, per raccogliere i quali il governo attingerà al fondo da 20 miliardi creato prima di Natale. Soltanto che questa operazione non sarà a costo zero. Le obbligazioni subordinate saranno convertite in azioni con un cambio previsto al 75% del valore per gli investitori istituzionali (che quindi si faranno carico di una parte dei costi del salvataggio) e al 100% per i risparmiatori privati. Dopodiché i risparmiatori potranno vendere allo Stato le azioni ottenute e avere in cambio obbligazioni tradizionali. Questo passaggio, il più problematico dell’intera operazione, ha un costo per le casse pubbliche stimabile in circa 2 miliardi di euro, se tutti gli investitori “retail” sceglieranno di avere i bond al posto delle azioni. Così, sommando i 4,6 miliardi di capitali freschi e i 2 miliardi per gli obbligazionisti si arriva ai 6,6 miliardi di costi per il ministero dell’Economia, che si troverebbe in pancia il 70% delle azioni della banca.
Certo, la severità dell’organismo di sorveglianza della Banca centrale europea, diretto dalla francese Daniele Nouy, stupisce. Soprattutto dopo che, nel giorno in cui ha alzato il conto per Mps, la stessa Bce ha ridotto le richieste per Deutsche Bank. In base ai risultati del processo di revisione dei conti il colosso tedesco da gennaio potrà lasciare scendere il suo coefficiente Cet1 al 9,51% rispetto al 10,76% attuale. Questo taglio permette alla banca tedesca di avere più margini per concedere dividendi, premi ai manager e cedole agli obbligazionisti. Un premio basato sui conti, ma che arriva dopo le polemiche dei mesi passati riguardo il trattamento preferenziale che Deutsche Bank avrebbe ottenuto negli stress test dell’estate scorsa. Il Financial Times aveva rivelato che alla banca era stato permesso di includere nei suoi risultati del 2015 ben 4 miliardi di euro derivanti dalla cessione della banca cinese Hua Xia, già concordata ma ultimata soltanto a novembre di quest’anno. Una mossa che ha permesso alla banca di mostrare un Cet1 del 7,8 invece che del 7,4%. La Bce ha successivamente spiegato di avere avuto rassicurazioni dalle autorità cinesi sul fatto che la cessione avrebbe ottenuto il via libera. Ma nelle regole ufficiali degli stress test si precisava che non potevano essere incluse nei risultati «le transazioni che non erano completate prima del 31 dicembre 2015, anche se già concordate».